Due autobombe fanno strage in Somalia: almeno 100 morti e troppi feriti da curare

I jihadisti di Al-Shabaab colpiscono ancora un Paese devastato dalla siccità

[31 Ottobre 2022]

Il presidente della Somalia  Hassan Sheikh Mohamud  ha confermato che  le due autobombe esplose  il 29 ottobre a Mogadiscio, vicino a un trafficato incrocio con un mercato di fronte al ministero dell’Istruzione, hanno ucciso almeno 100 persone e ne hanno ferito 300 e ha avvertito che il numero delle vittime potrebbe aumentare.

La prima delle esplosioni ha colpito il ministero dell’Istruzione intorno alle 14,00. La seconda è avvenuta quando sono arrivate le ambulanze e gruppi di persone stavano cercando di aiutare le vittime. Dopo aver visitato la scena dell’attentato, il presidente Mohamud ha detto: «La nostra gente che è stata massacrata… C’erano madri con i loro figli in braccio, padri che avevano problemi di salute, studenti che tornavano da scuola, uomini d’affari che stavano lottando perla vita delle loro famiglie».

L’attentato di sabato all’incrocio K5 di Mogadiscio, che normalmente pullula di persone che comprano e vendono di tutto, da cibo, vestiti e acqua a valuta straniera e khat, foglie leggermente narcotizzanti che in Somalia masticano tutti, è stato il più mortale dopo quello del 14 ottobre 2017, quando un camion bomba venne fatto esplodere  allo stesso incrocio, uccidendo 512 persone e ferendone quasi 300.

Contattato telefonicamente domenica da Céline Pellarin della redazione africana di Radio France International (RFI), Abdul Khadeer Adhen, proprietario dell’unica compagnia privata di ambulanze della Somalia, ha  detto che «Gli ospedali della capitale sono saturi, la situazione è fuori controllo! Ci sono troppi feriti di cui prendersi cura, troppi cadaveri di cui prendersi cura. E gli operatori sanitari non hanno attrezzature negli ospedali affollati. Penso che purtroppo ci saranno più morti tra le vittime, le ferite causate dalle esplosioni sono molto gravi. E si teme che molti feriti alla fine soccomberanno negli ospedali nei prossimi giorni. I miei team sono sul territorio ma le condizioni sono difficili.  Sì, possiamo lavorare, ma ieri una delle nostre ambulanze è stata colpita dalle esplosioni. Feriti l’autista e una delle assistenti che viaggiavano a bordo del veicolo. E l’ambulanza è completamente distrutta».

Diverse persone stavano ancora scavando tra le macerie, cercando i loro parenti scomparsi, sollevando i detriti tra gli edifici in rovina. Altri hanno iniziato a ripulire il sito perché la doppia esplosione ha causato gravi danni all’area circostante, tra cui la rottura delle finestre degli edifici vicini. A Mogadiscio la popolazione si è mobilitata: si sono formate code davanti agli ospedali per le donazioni di sangue, i residenti hanno portato pasti alle vittime, gli studenti di medicina sono venuti a rafforzare il personale medico e il Primo Ministro della Somalia ha nominato un comitato per coordinare la risposta umanitaria e per valutare l’entità dei danni.

Il gruppo terroristico islamista Al-Shabaab, legato ad Al-Qaeda ha rivendicato la responsabilità degli attacchi in una dichiarazione, affermando che i suoi combattenti stavano prendendo di mira il ministero dell’Istruzione. I miliziani di Al Shabaab, che cercano da 15 anni di rovesciare il fragilissimo governo e di stabilire un califfato islamico basato su un’interpretazione estrema della legge islamica, organizzano spesso attacchi a Mogadiscio e altrove.  La scorsa settimana ha rivendicato l’attacco a un hotel nella città portuale di Kismayo che ha ucciso 9 persone e ferito altre 47.

Mohamoud ha  avvertito che l’attentato non scoraggerà il governo nella sua lotta contro i combattenti jihadisti. Già ad agosto aveva promesso una «guerra totale» per eliminare gli Shebab, cercando anche di tagliarli fuori dall’accesso alle loro risorse finanziarie. Le forze di sicurezza somala e le milizie dei clan locali . con il sostegno degli Stati Uniti – hanno avviato operazioni militari nel centro del Paese che avrebbero consentito di recuperare territori occupati dai jihadisti, ma risultati sono stati modesti e Samira Gaid, direttrice dell’Hiraal Institute, un gruppo di ricerca indipendente somalo, fa notare che «Il governo ha compiuto progressi, non da solo, ma in collaborazione con una rivolta civile, avvenuta in alcune parti della Somalia dove i civili hanno deciso di combattere gli Al-Shabaab e hanno chiesto al governo di intervenire per aiutarli. In queste zone, combattenti jihadisti sono stati espulsi da alcune città e villaggi. Quindi sì ci sono stati dei successi ma allo stesso tempo un attacco come quello di sabato richiede molta pianificazione, bisogna riuscire ad importare in città attrezzature e soprattutto esplosivi. Quindi mostra che, anche se gli shebab subiscono pressioni in alcune regioni, sono in grado di isolare le loro attività e garantire che quelle nella capitale possano continuare. Hanno sempre avuto una buona coordinazione e un certo livello di capacità di nascondersi e rimangono ben coordinati e con una buona adattabilità. Va anche notato che ci sono ancora molti territori che non sono sotto il controllo del governo. Quindi c’è ancora molto da fare nella lotta contro gli Shebab. In particolare, è necessario un maggiore coordinamento tra il governo centrale e gli Stati federati. E ci deve anche essere una soluzione politica alle lamentele di vecchia data che alimentano gli Shebab. In particolare, è necessario un maggiore coordinamento tra il governo centrale e gli Stati federati. E ci deve anche essere una soluzione politica alle lamentazioni di vecchia data che alimentano gli Shebab».

Gli attentati sono stati condannati degli alleati della Somalia, compresa l’United Nations Assistance Mission in Somalia (UNSOM)  che ha promesso di schierarsi «risolutamente con tutti i somali contro il terrorismo», mentre l’African Union Transition Mission in Somalia (ATMIS), che dal primo aprile ha sostituito l’African Union Mission in Somalia (AMISOM), ha dichiarato che «Questi attacchi sottolineano l’urgenza e l’importanza fondamentale dell’offensiva militare in corso per indebolire ulteriormente Al-Shabaab

Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha esortato la comunità internazionale a  «Raddoppiare gli sforzi per garantire un solido sostegno internazionale alle istituzioni somale nella loro lotta per sconfiggere i gruppi terroristici».

Tutto questo avviene per le risorse di un Paese poverissimo e che negli ultimi 40 anni è stato dilaniato da siccità infinite, La Somalia, in guerra civile dalla caduta del dittatore (anmico degli italiani) Mohammed Siad Barre nel 1991 è considerata una dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico, di fronte al quale non ha risorse e mezzi mentre combatte l’insurrezione islamista.

Al termine della sua recente visita in Somalia e Kenya, l’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), Filippo Grandi, ha invitato i leader globali a «Non risparmiare sforzi nell’assistere i Paesi del Corno d’Africa per interrompere il ciclo del guerra e della crisi climatica».

Mentre le persone cercano di evitare la carestia e cercano sicurezza, molti sono stati costretti a fuggire. Secondo la Protection and Return Monitoring Network dell’UNHCR, quest’anno «In Somalia il numero di sfollati interni, principalmente a causa della siccità, si avvicina a 1 milione, con altri quasi 500.000 sfollati a causa di conflitti e insicurezza. Molti di coloro che sono già stati costretti a fuggire dalla violenza sono stati sfollati ancora una volta dalla peggiore siccità degli ultimi 40 anni, causata da 4 stagioni delle piogge fallite, con una quinta previsto. A livello globale, tali eventi meteorologici estremi si stanno intensificando e stanno diventando più frequenti a causa della crisi climatica».

A Galkacyo, Grandi ha incontrato famiglie che avevano camminato per giorni per raggiungere i campi profughi e ha ascoltato le storie delle scelte strazianti che stanno facendo per sopravvivere, come lasciare i propri cari o vendere i propri beni per sfamare i propri figli, e le particolari conseguenze per le donne e bambini. «Queste famiglie sono le meno responsabili del riscaldamento globale, eppure sono le più colpite. È tragico ed è vergognoso, e il mondo non dovrebbe distogliere lo sguardo», ha detto.

In Kenya, Grandi ha visitato Dadaab e Kakuma, dove ha incontrato i rifugiati, la comunità ospitante e i partner dell’Onu. A Dadaab, dove i rifugiati somali vivono nei campi da più di 30 anni, Grandi ha visto come la siccità stia influenzando lo sfollamento. Più di 50.000 rifugiati somali arrivati ​​negli ultimi anni hanno un disperato bisogno di sostegno. Solo quest’anno sono arrivate circa 20.000 persone. Grandi  ha fatto notare che «L’impatto della siccità in Kenya non è nei titoli dei giornali, ma merita altrettanta attenzione da parte della comunità internazionale.Dobbiamo ottenere le risorse per fare di più per questi arrivi dalla Somalia e anche per i kenioti colpiti».

Grandi ha incontrato il presidente del Kenya William Ruto e ha riaffermato «L’impegno dell’UNHCR a lavorare a stretto contatto con la sua nuova amministrazione per la protezione e le soluzioni per i rifugiati, nonché per incoraggiare un maggiore sostegno allo sviluppo delle comunità ospitanti».

Da 30 anni il Kenya fornisce protezione internazionale ai rifugiati provenienti da tutto il Corno d’Africa e attualmente ospita oltre mezzo milione di rifugiati e richiedenti asilo.  Nel loro incontro, Grandi e Ruto hanno convenuto che «Consentire ai rifugiati di lavorare e integrarsi con le loro comunità ospitanti è l’opzione migliore per porre fine alla dipendenza dagli aiuti umanitari». Grandi ha aggiunto «Abbiamo l’opportunità che il Kenya sia un leader nell’adozione di un modello di insediamento e nel raggiungimento di soluzioni sostenibili per i rifugiati. Dobbiamo approfittarne. Chiedo alla comunità internazionale di sostenere questo approccio promettente».