Drammatico aumento di profughi che cercano di attraversare il Mare delle Andamane

In Myanmar tribunali militari segreti condannano a morte decine di persone. 50.000 sgomberi forzati e distruzione di alloggi

[5 Dicembre 2022]

L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) e i suoi partner hanno lanciato l’allarme per il drammatico aumento del numero di persone che tentano di attraversare il Mare delle Andamane, uno dei più pericolosi del mondo, partendo dal Bangladesh e dal Myanmar.

L’Unhcr dice che «Da gennaio a novembre 2022, circa 1.920 persone, per lo più Rohingya, si sono spostate via mare, dal Myanmar e dal Bangladesh, rispetto alle sole 287 del 2021, un aumento di oltre 6 volte. I tentativi di questi viaggi espongono le persone a gravi rischi ea conseguenze fatali. Tragicamente, solo quest’anno 119 persone sono state dichiarate morte o disperse durante questi viaggi». Ma molto probabilmente le cifre reali di profughi e morti sono molto più alte.

Gliarrivi più recenti sono stati registrati due settimane fa, quando più di 200 persone sono arrivate su due barche a North Aceh, in Indonesia, dove le e autorità locali si sono prodigate per sbarcare e ricevere i gruppi di profughi in sicurezza, ospitandoli  in un ex ufficio dell’immigrazione a Lhokseumawe. L’Unhcr e l’International organization for migration (IOM) stanno lavorando a stretto contatto con le ONG e con le autorità locali per aiutare a sostenere i rifugiati, anche attraverso la loro registrazione, e provvedendo ai loro bisogni di base e lavorando per garantire un alloggio sicuro e adeguato per i due gruppi sbarcati a Nord Aceh.

L’Unhcr ha anche «Ricevuto segnalazioni non verificate di altre imbarcazioni alla deriva in mare contenenti passeggeri che richiedono urgentemente soccorso e attenzione salvavita».

Con livelli crescenti di disperazione e vulnerabilità che costringono sempre più rifugiati a intraprendere questi viaggi mortali, l’Unhcr e i suoi partner avvertono che è necessaria «Una maggiore cooperazione regionale e internazionale per salvare vite umane e condividere le responsabilità. L’Indonesia attualmente ospita quasi 13.000 rifugiati e richiedenti asilo, per lo più provenienti da Afghanistan, Somalia e Myanmar, e non dovrebbe essere l’unica a soccorrere e sbarcare persone alla deriva in mare. E’ imperativo che gli Stati della regione mantengano gli impegni presi nel 2005 nell’ambito del Processo di Bali per trovare collettivamente soluzioni per coloro che tentano questi viaggi disperati».

Nel 2016, dopo che per mesi 5.000 uomini, donne e bambini sono stati abbandonati dai trafficanti di esseri umani nel Mare delle Andamane e lasciati alla deriva, affamati e malati, i governi dell’area Asia-Pacifico si sono impegnati a fare di più per evitare che le i migranti muoiano durante tali viaggi, Infatti, dopo l’inizio della crisi del Mare delle Andamane e del Golfo del Bengala. 7 anni fa, il Bali Process ha stabilito la necessità di una risposta affidabile e collettiva a questo problema regionale e l’Unhcr fa notare che «Una risposta globale ed equa richiede necessariamente la condivisione delle responsabilità e sforzi concreti in tutto il sud-est asiatico, in modo che coloro che consentono lo sbarco e portano in salvo le persone in difficoltà non sostengano un onere sproporzionato».

I governi coinvolti nel Bali Process  (Afghanistan, Australia, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Filippine, India, Indonesia, Malaysia, Maldive. Myanmar, Nuova Zelanda, Pakistan, Sri Lanka, Thailandia, Usa e Vietnam) si riuniranno questa settimana in per celebrare il XX anniversario dell’accordo, in vista del vertice ministeriale del 2023 e «Con il deterioramento delle condizioni e la disperazione che costringono più persone a compiere questi viaggi mortali, l’Unhcr, insieme ai partner umanitari, sottolinea la necessità di una maggiore cooperazione regionale e internazionale per salvare vite umane».

Ma il problema è che tra i Paesi che discuteranno ai summit del Bali Process c’è anche l’epicentro di questa crisu disumana dei profughi. Il Myanmar, dove la situazione politica e umanitaria sta peggiorando giorno per giorno.

Il 2 dicembre, il capo dei diritti umani dell’Onu, Volker Türk, si è detto scioccato per il fatto che, nuove condanne la scorsa  settimana «In Myanmar, finora più di 130 persone sono state condannate a morte dai tribunali militari a porte chiuse da quando i militari hanno fatto un colpo di stato lo scorso anno. Il 30 novembre almeno sette studenti universitari sono stati condannati a morte da un tribunale militare. Ci sono segnalazioni di altre 4 condanne a morte emesse ieri contro giovani attivisti. L’United Nations Human Rights Office chiede chiarimenti su tali sentenze».

Türk ha denunciato che «I militari continuano a tenere processi in tribunali segreti, in violazione dei principi fondamentali del giusto processo e contrari alle fondamentali garanzie giudiziarie di indipendenza e imparzialità. Chiedo la sospensione di tutte le esecuzioni e il ritorno a una moratoria sulla pena di morte. I tribunali militari hanno costantemente fallito nel sostenere qualsiasi grado di trasparenza il che è contrario alle più elementari garanzie di giusto processo o procedurali»

A luglio, i militari golpisti hanno eseguito 4 condanne, le prime in circa 30 anni: un ex parlamentare, un attivista per la democrazia e altri due militanti anti-dittatura sono stati giustiziati nonostante gli appelli dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) e della comunità internazionale. Quasi 1.700 detenuti dei quasi 16.500 arrestati per essersi opposti al golpe militare sono stati processati e condannati in segreto da tribunali militari ad hoc, con udienze che a volte durando solo pochi minuti. Nessuno è stato assolto e spesso gli oppositori non hanno avuto accesso agli avvocati o hanno potuto parlare con le loro famiglie. Le ultime condanne porterebbero a 139 il numero totale di persone condannate alla pena capitale dal 1° febbraio 2021.

Türk  fa notare che «Le azioni dei militari non sono in linea con il consenso dei 5 punti dell’ASEAN che le nazioni del sud-est asiatico si sono appena impegnate nuovamente a sostenere al vertice ASEAN di novembre. Ricorrendo all’uso delle condanne a morte come strumento politico per schiacciare l’opposizione, l’esercito conferma il proprio disprezzo per gli sforzi dell’ASEAN e della comunità internazionale in generale per porre fine alla violenza e creare le condizioni per un dialogo politico che porti il ​​Myanmar fuori da una situazione di crisi dei diritti umani creata dai militari».

A quel vertice, il segretario generale dell’Onu, António Guterres aveva avvertito che «La situazione politica, di sicurezza, dei diritti umani e umanitaria in Myanmar sta sprofondando sempre più nella catastrofe» e aveva condannato «L’escalation della violenza, l’uso sproporzionato della forza e la spaventosa situazione dei diritti umani nel Myanmar».

Intanto, mentre l’ASEAN e la comunità internazionale stanno a guardare. i relatori speciali Onu sul  diritto a un alloggio adeguato, Balakrishnan Rajagopal, e  sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Thomas Andrews, avvertono in un rapporto congiunto che «L’esercito del Myanmar sta sgomberando con la forza oltre 50.000 persone dagli insediamenti informali e distruggendo sistematicamente le case, con una violazione fondamentale degli obblighi fondamentali in materia di diritti umani»

Gli esperti dell’Onu spiegano che «Più di 40.000 residenti che vivono in insediamenti informali a Mingaladon, una cittadina a nord di Yangon, hanno ricevuto il mese scorso avvisi di sfratto. A molti sono stati concessi solo pochi giorni per smantellare le loro case, senza la fornitura di alloggi o terreni alternativi. La maggior parte dei residenti viveva da r decenni in una zona industriale contenente un misto di imprese industriali, insediamenti informali e terreni liberi controllati dall’esercito del Myanmar. Altri residenti si sono trasferiti nell’area dopo essere stati sfollati a causa del ciclone Nargis nel 2008, o vi sono stati sfollati con la forza a seguito di violenti attacchi militari ai villaggi civili nello Stato di Rakhine. Dopo aver ricevuto gli avvisi di sfratto, alcuni residenti hanno smantellato le loro case nel tentativo di mettere al sicuro i loro averi e i materiali da costruzione. Tuttavia, la maggior parte dei residenti finora ha scelto di rimanere a causa della mancanza di alternative o ha deciso di abbandonare le proprie case. Per disperazione, due residenti si sarebbero suicidati».

Rajagopal e Andrews sottolineano che «Gli sgomberi forzati da Mingaladon sono solo una parte della storia. Le demolizioni violente e arbitrarie di alloggi continuano in tutto il Paese. Il 19 novembre, 150 case sono state demolite con i bulldozer nel quartiere 3 della municipalità di Mayangone a Yangon, lasciando i residenti colpiti senza casa. Lo sgombero è stato eseguito dal Consiglio dell’Amministrazione dello Stato e da civili armati di bastoni e coltelli. Secondo quanto riferito, ai residenti sono stati concessi solo 30 minuti per rimuovere i loro averi e si stanno temporaneamente rifugiando nei monasteri o da  amici. A Mandalay, la seconda città più grande del Myanmar, oltre 5.000 famiglie nella municipalità di Chan Mya Thazi sono state sfrattate durante la notte del 21 novembre. In precedenza i militari avevano demolito diverse case con i bulldozer nel villaggio di Zee Oat nella stessa città. Inoltre, era stata ordinata, entro il 25 novembre, la rimozione di 200 negozi e appartamenti sulla strada della stazione della cittadina di Pyin Oo Lwin a Mandalay, nonostante l’approvazione locale».

Secondo gli esperti Onu, non sono stati sottoposti a sgomberi forzati e demolizioni di abitazioni solo coloro che vivevano negli insediamenti informali nelle città del Myanmar: «Le case hanno continuato a essere sistematicamente distrutte, bombardate e bruciate in attacchi orchestrati ai villaggi da parte delle forze di sicurezza del Myanmar e delle milizie sostenute dalla giunta». Si tratta delle stesse milizie della destra buddista che hanno causato la crisi dei Rohingya, attaccando la minoranza musulma, uccidendo, stuprando e bruciando i villaggi per costringerli a fuggire dal Myanmar. Allora il governo democratico di Aung San Suu Kyi fece finta di non vedere e di non sentire per non inimicarsi la destra buddista che poi ha appoggiato il golpe militare. Ora San Suu Kyi è nuovamente in galera e i Rohingya gonfiano i campi profughi in Blangadesh o muoiono annegati nel Mer delle Andamane e i militari hanno dichiarato guerra al loro stesso popolo e stanno bombardando e massacrando le molte etnie che formano da sempre il mosaico culturale di quella che fu la Birmania.

Rajagopal e Andrews  hanno stilato un drammatico bilancio provvisorio di questa guerra civile che i militari hanno scatenato per accaparrarsi di tutte le risorse del Myanmar: «Dal colpo di stato militare del 1° febbraio 2021, più di 38.000 case sono state distrutte o bruciate, provocando uno sfollamento generalizzato di oltre 1,1 milioni di persone. Di recente, il 23 novembre, 95 case su 130 sono state bruciate nel villaggio di Kha War Thei nella municipalità di Kyunhla, quando l’esercito birmano ha appiccato il fuoco all’insediamento. Questi incidenti seguono un modello di incendio diffuso dei villaggi Rohingya perpetrato dall’esercito del Myanmar nel 2017 durante gli attacchi genocidi contro i Rohingya. Le politiche della terra bruciata in Myanmar sono diffuse e seguono uno schema sistematico».

In un recente rapporto all’Assemblea generale dell’Onu, Rajagopa ha suggerito che «Tale distruzione arbitraria di alloggi, sfollando migliaia di persone senza fissa dimora, dovrebbe essere riconosciuta come “domicdio”, un crimine ai sensi del diritto internazionale».

E i due relatori speciali concludono: «Gli sgomberi forzati e gli incendi di massa delle case sono gravi violazioni dei diritti umani. La giunta [militare] deve fermare immediatamente la sistematica distruzione, incendio e demolizione di case civili. A seconda del contesto, la distruzione sistematica di alloggi e lo sfollamento possono essere perseguiti come crimine di guerra, crimine contro l’umanità o entrambi. E’ responsabilità della comunità internazionale garantire che i responsabili di tali crimini affrontino la giustizia internazionale».