L’inevitabile e rapido declino dei combustibili fossili: gli investimenti in petrolio, gas e carbone sempre meno redditizi

Il crollo dell’economia fossile potrebbe provocare onde d’urto globali sociali ed economiche

[5 Giugno 2020]

Il rapporto Decline and Fall: The Size & Vulnerability of the Fossil Fuel System” pubblicato da Carbon Tracker  esamina le tre parti principali del sistema di combustibili fossili: riserve di carbone, petrolio e gas; infrastruttura della domanda e offerta; mercati finanziari e calcola il valore degli stocks e dei flussi in ciascuna area e determina quali parti sono più vulnerabili al picco della domanda dei combustibili fossili, ne viene fuori che «Il crollo della domanda e l’aumento del rischio di investimento probabilmente ridurranno il valore delle riserve di petrolio, gas e carbone di quasi due terzi, producendo onde d’urto nell’economia globale che colpiranno società, mercati finanziari e Paesi che dipendono dalle esportazioni».

Il rapporto avverte che «L’industria dei combustibili fossili si sta avvicinando al declino terminale a causa della concorrenza delle tecnologie pulite e delle politiche governative più severe per raggiungere gli obiettivi climatici e aumentare la sicurezza energetica». E la crisi del Covid-19 sta accelerando tutto questo: secondo il  Global Energy Review 2020

Dell’International energy agency «Nel 2020 La domanda di petrolio potrebbe diminuire del 9%».

Ma, viste le dimensioni raggiunte, il declino dell’economia dei combustibili fossili «potrebbe rappresentare una minaccia significativa per la stabilità finanziaria globale». Carbon Tracker  ricorda che «Le società compagnie del sistema di combustibili fossili valgono 18 trilioni di dollari in azioni quotate, che rappresentano un quarto del valore totale dei corporate bond market e rappresentano 8 trilioni di dollari di corporate bonds, oltre la metà del mercato dei corporate bond market non finanziari. Il debito non quotato, in gran parte dovuto alle banche, può essere 4 volte maggiore».

Nel 2018 la Banca mondiale aveva valutato i profitti futuri di petrolio, gas e carbone a 39 trilioni, ma il rapporto di Carbon Tracker rileva che «Se la domanda diminuirà del 2% all’anno, in linea con l’Accordo di Parigi e i tassi di sconto aumenteranno in linea con un aumento del rischio, i profitti futuri crollerebbero di quasi i due terzi a soli 14 trilioni di dollari» e dimostra anche che i produttori che si aspettano un ritorno al business as usual potrebbero sun bire perdite altissime, fino a 100 trilioni di dollari.

Kingsmill Bond, stratega energetico di Carbon Tracker e autore del rapporto, spiega che «Stiamo assistendo al declino e alla caduta del sistema di combustibili fossili. L’innovazione tecnologica e il sostegno politico stanno portando al picco della domanda di combustibili fossili settore dopo settore e Paese dopo Paese e la pandemia di COVID-19 ha accelerato tutto questo. Ora potremmo aver visto il picco della domanda di combustibili fossili nel suo complesso. Questa è un’enorme opportunità per i Paesi che importano combustibili fossili che possono risparmiare miliardi di dollari passando a un’economia dell’energia pulita in linea con l’Accordo di Parigi. Ora è il momento di pianificare un wind-down delle risorse dei combustibili fossili e gestire l’impatto sull’economia globale piuttosto che cercare di sostenere l’insostenibile».

Colossi petroliferi come ExxonMobIl prevedono ancora una crescita continua della domanda di combustibili fossili e il sistema di combustibili fossili nel suo insieme ha investito 5 trilioni di dollari all’anno in nuove infrastrutture di domanda e offerta. Ma  Carbon Tracker fa notare che «il recente taglio dei dividendi di Shell, la decisione di Repsol di cancellare 4,8 miliardi di euro di attività l’anno scorso e i crescenti fallimenti nel settore degli scisti petroliferi statunitensi sono tutti sintomi di un settore in fase di cambiamento strutturale».

In realtà stiamo assistendo a un declino che potrebbe trasformarsi in un crollo: «Le dimensioni e la vulnerabilità del sistema di combustibili fossili indicano come il calo della domanda di combustibili fossili porti a sovraccapacità, abbassando i prezzi e riducendo i profitti e i prezzi delle azioni delle società – evidenzia il rapporto – Molte aziende saranno costrette a cancellare le loro attività, a cancellare investimenti o addirittura a fallire. Anche le aziende che resteranno redditizie guadagneranno molto meno denaro di prima».

Il sistema di combustibili fossili è enorme, con infrastrutture per un valore di 32 trilioni di dollari, comprende produttori di carbone, petrolio e gas; compagnie che costruiscono e gestiscono centrali elettriche, auto, camion, aerei e navi; le industrie siderurgiche, del cemento, petrolchimiche e dell’alluminio che sono forti utilizzatori di combustibili fossili e le aziende che forniscono e costruiscono la propria infrastruttura. IL rapporto fa presente che «Il crollo dei futuri profitti di combustibili fossili potrebbe minacciare la stabilità dei petrostati, Paesi le cui economie si basano sul reddito delle esportazioni di petrolio», in particolare Arabia Saudita, Russia, Iraq e Iran e Paesi particolarmente vulnerabili come Venezuela, Ecuador, Libia, Algeria, Nigeria e Angola.

Gli investitori saranno colpiti dalla diminuzione dei rendimenti, «ci sarà meno capitale disponibile per dividendi e pagamenti di interessi. Nel Regno Unito, ad esempio, nel 2019 il settore petrolifero e del gas ha prodotto il 24% dei dividendi dall’indice FTSE. I mercati potrebbero vendere azioni in previsione del picco della domanda molto prima che le attività vengano svalutate».

A essere particolarmente vulnerabili sono le compagnie con un valore di 6 trilioni di dollari, perché operano in settori che espandono il sistema di combustibili fossili, dai costruttori di impianti di GNL e oleodotti ai produttori di motori per auto convenzionali e turbine a gas.

Il sistema di combustibili fossili si è mostrato altamente vulnerabile: «Anche prima della crisi del Covid-19 la crescita della domanda di combustibili fossili era inferiore all’1% all’anno e le tecnologie pulite ora rappresentano una quota crescente della domanda mondiale di energia – spiega il rapporto – Le fonti rinnovabili sono già la forma più economica di produzione di energia diffusa nell’85% del mondo e le batterie dei veicoli elettrici sono paragonabili al costo dei motori delle auto convenzionali. Le compagnie elettriche stanno rapidamente passando alle energie rinnovabili, mentre le case automobilistiche stanno spostando la produzione verso i veicoli elettrici. Questo è significativo perché l’elettricità consuma più di un terzo della produzione globale di combustibili fossili e la maggiore domanda di petrolio proviene dal settore automobilistico».

I governi stanno sostenendo le tecnologie pulite per riuscire a rispettare gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi e combattere l’inquinamento atmosferico da combustibili fossili, che uccide 4,5 milioni di persone all’anno. Per i due Paesi più popolosi del mondo, Cina e India, la sicurezza energetica rappresenta anche un grande incentivo, visto che dipendono fortemente dalle importazioni di combustibili fossili.Il rapporto rileva che «I Paesi importatori di combustibili fossili – che ospitano l’80% della popolazione mondiale – hanno anche un incentivo finanziario a sostenere le energie rinnovabili perché trasferiscono oltre 2 trilioni di dollari all’anno di profitti ai petrostati» e conclude mettendo in guardia gli investitori: «Esiste un rischio molto maggiore nel sistema dei combustibili fossili di quanto sia convenzionalmente valutato nei mercati finanziari. Gli investitori devono aumentare i tassi di sconto, ridurre gli expected prices, i curtail terminal values e tenere conto dei costi del clean-up».

Commentando il rapporto  su Euractiv Florence Schulz evidenzia che «Se le previsioni si riveleranno corrette, un’enorme settore industriale potrebbe andare incontro alla rovina finanziaria».  Infatti, secondo lo studio, «ci sono ancora quasi 6.700 centrali elettriche a carbone in funzione in tutto il mondo, e si prevede di costruirne altre 1.046 centrali, soprattutto in Cina e in India. Ma anche in Europa sono ancora in costruzione nuove centrali a carbone. Ad esempio, la Germania ha collegato alla rete la sua ultima centrale a carbone, la Datteln 4, solo la settimana scorsa, il 30 maggio, nonostante la decisione del paese di eliminare gradualmente questo tipo di dipendenza energetica».

L’Ue sta ridefinendo le sue linee guida per la decarbonizzazione in base all’European Green Deal e anche il pacchetto di recupero da 750 miliardi di euro presentato dalla Commissione Europea promuove solo investimenti sostenibili e che seguano il principio “non nuocere”, ma intanto continuano a essere investiti miliardi di euro nelle infrastrutture inquinanti e, come ricorda la Schulz, «A febbraio, nonostante un acceso dibattito interno, il Parlamento europeo aveva stilato la cosiddetta lista Pci (Progetti di interesse comune), di cui un terzo è costituito da progetti sul gas».

Lo stesso vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans, responsabile dell’European Green Deal, ha detto recentemente che «Stiamo cercando di stare il più lontano possibile dai progetti basati sui combustibili fossili. Ma il gas naturale, in particolare, sarà probabilmente necessario nei prossimi anni per passare dal carbone all’energia sostenibile».

Potrebbe sbagliare e la transizione accelerata verso le energie rinnovabili potrebbe saltare quello che si riteneva il “ponte” rappresentato dal gas, rendendo sempre più rischiosi e non economici i grandi  investimenti che l’Europa continua a fare nei gasdotti e addirittura nel carbone.