Libia: la guerra nel porto sicuro di Salvini

La nuova guerra del petrolio tra le milizie e gli aguzzini dei migranti

[8 Aprile 2019]

Il 5 aprile, prima di lasciare la Libia al termine di una sua visita a Bengasi nel tentativo di evitare che la guerra civile diventasse guerra aperta e «conflitto sanguinoso» tra le milizie fedeli al governo di Tripoli riconosciuto dall’Italia e dall’Onu e quello sostenuto dall’Esercito nazionale Libico (Lna) del generale Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva espresso una flebile speranza, ma aveva detto di andarsene «con una profonda inquietudine e il cuore pesante» per quel che aveva visto e sentito.

Dopo si è scatenato l’inferno, le milizie dell’Lna hanno circondato Tripoli con una manovra a tanaglia che è partita dai territori che avevano conquistato, con le armi o con alleanze tribali, nei mesi e nelle settimane scorse e il governo di Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj ha risposto attaccando con aerei. Poi gli stessi Paesi europei e arabi (e la Nato) che hanno armato le milizie opposte e scatenato il caos libico hanno lanciato un appello per fermare i combattimenti.

Dietro c’è come sempre il petrolio, perché quella libica è stata ed è una guerra per il petrolio che vede in prima fila l’Italia che, prima e dopo la caduta di Gheddafi, ha svolto nella nostra ex colonia un ruolo schizofrenico che fa rimpiangere i bei tempi di Giulio Andreotti, dove almeno l’Italia una politica estera e mediterranea ce l’aveva.

D’altronde scegliere tra Haftar e al-Sarrāj è un’impresa: uno è stato riportato in Libia con un canotto e dichiarato leader di una porzione del Paese in realtà governata da bande armate islamiste e di trafficanti di cane umana e torturatori alle quali il governo italiano – prima Minniti e poi Salvini – ha fornito armi e motovedette per trasformarle nei guardiani dei migranti, l’atro è stato fedele a Gheddafi, poi uomo degli Usa, ora amico dei russi, dei francesi e dei sauditi… La Libia è un inferno e solo un demagogo come Salvini ha potuto definirla fino a ieri – mentre le milizie si scambiavano cannonate per conquistare i giacimenti di petrolio e gas dell’Eni – «un porto sicuro».

Quel che è successo in Libia dopo la defenestrazione di Gheddafi è il fallimento della comunità internazionale che poi ha voltato gli occhi dall’altra parte per non vedere le atrocità commesse da chi aveva improvvidamente armato e appoggiato con gli aeri Nato, è il fallimento dell’Italia che in quello che i fascisti chiamavano lo scatolone di sabbia continua solo a vedere petrolio e migranti e non un Paese mandato a pezzi senza prima cercare di costituire un’alternativa a una dittatura con la quale i nostri governi avevano avuto – salve qualche “mattanata” di Gheddafi – ottimi e lucrosi rapporti culminati nel baciamani di Berlusconi al rais di Tripoli.

E questo riflesso plavoviano italiano ora porta in molti a temere che con la guerra ci sarà un’altra ondata di migranti e profughi sulle nostre coste, perché sonno bene che la cosiddetta “Guardia Costiera” libica verrà richiamata in forze a rimpinguare i ranghi delle milizie armate da cui proviene.

La guerra almeno rivela il bluff di Salvini e dell’intero governo italiano: la Libia non è mai stata un porto sicuro e “l’autorità” con la quale avevamo sottoscritto patti sulla pelle di migliaia di poveri cristi non esisteva e non esiste: è una coalizione di bande armate, trafficanti e criminali che sostengono un governo inventato dall’occidente per poter dire che la Libia esiste ancora.

Chi continua a sostenere e armare milizie e governi fantoccio è complice e artefice della distruzione di un Paese e della tragedia umana di chi per fuggire a guerre e fame è finito prigioniero in uno scatolone di sabbia sorvegliato da mercenari e aguzzini.

Guterres ha detto che «I libici meritano la pace, la sicurezza, la prosperità e il rispetto dei loro diritti umani» e che l’unica soluzione è politica e non armata. Giusto, ma non sarà certamente chi ha armato e sostenuto le milizie e le bande armate e ha permesso che trasformassero la Libia in un campo di concentramento per migranti che restituirà la pace e la dignità al popolo libico.