Putin cita il Corano e invita i sauditi a comprare da lui sistemi anti-aerei che funzionano

L’attacco al petrolio saudita rischia di trascinare il Medio Oriente in una guerra totale

Attacco partito dall’Iraq o dall’Iran? Gli Houthi yemeniti: siamo stati noi e colpiremo ancora

[17 Settembre 2019]

Gli attacchi al cuore petrolifero dell’Arabia Saudita, rivendicati dai combattenti Houthi sciiti  dello Yemen, al potere a Sana’a,  potrebbero trascinare un Paese già dilaniato dalla guerra in  un conflitto ancora più grande, Ne è convinto l’inviato speciale dell’Onu in Yemen, Martin Griffiths che, intervenendo al Consiglio di sicurezza, ha detto che «Non c’è tempo da perdere nel porre fine a quattro anni di combattimenti» tra i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran e il governo fantoccio del sud Yemen, sostenuto della coalizione arabo/sunnita a guida Saudita e riconosciuto a livello internazionale. Un conflitto insensato che finora ha prodotto solo carestia, epidemia di colera e migliaia di morti e feriti civili nei bombardamenti sauditi e nella guerra sul campo. Secondo l’United Nations humanitarian affairs coordination office (Ocha), circa l’80% della popolazione yemenita , 24 milioni di persone, necessita di aiuti umanitari, mentre piovono bombe su scuole e ospedali e volano sofisticati droni.

Griffiths  ha avvertito che «L’attacco agli impianti dell’Aramco in Arabia Saudita dello scorso sabato mattina, 14 settembre, che ha causato una significativa interruzione della produzione di greggio del Regno, ha conseguenze ben al di là della regione. Come minimo, questo tipo di azione comporta il rischio di trascinare lo Yemen in una conflagrazione regionale. Di una cosa possiamo essere certi: ed è che questo incidente estremamente grave rende le possibilità di un conflitto regionale molto più elevate e quelle di un riavvicinamento molto più basso. Con lo Yemen che in qualche modo collegato. Niente di tutto ciò è positivo per lo Yemen».

Griffiths ha ricordato che gli attacchi sono avvenuti proprio mentre erano stati fatti «alcuni progressi limitati» nei colloqui tra le parti in guerra nello Yemen sull’attuazione di un accordo del dicembre 2018 che, tra gli altri punti, riguarda la città portuale di Hudaydah e lo scambio di prigionieri. La settimana scorsa Houthi yemeniti e sauditi si erano sono incontrati per discutere del potenziamento del cessate il fuoco, del disimpegno in prima linea e della prevista  riassegnazione delle forze. E’ stato attivato un meccanismo per il rispetto del cessate il fuoco nel porto sul Mar Rosso, da dove passano la maggior parte degli aiuti, che ha contribuito a ridurre la violenza. Griffiths ha detto che, nonostante tutto, «Sono incoraggiato dalla volontà delle parti di attuare ulteriori misure. La riduzione della violenza … è stato finora uno dei principali risultati dell’accordo di Hudaydah. Accolgo con favore questi passi concreti per rafforzarlo e migliorare l’accesso per la fornitura di aiuti umanitari». Ma poi ha aggiunto che «Le condizioni operative non sono mai state peggiori. Nei mesi di giugno e luglio, le Agenzie di aiuto hanno segnalato 300 incidenti che hanno ostacolato il loro lavoro, principalmente per le restrizioni imposte dalle autorità ribelli. Quasi 5 milioni di persone sono ne state colpite. Comprendono ostacoli alla registrazione dei beneficiari, tentativi di deviazione degli aiuti e attività per controllare la selezione dei partner attuatori. Gli operatori umanitari sono stati arrestati ai posti di blocco e, in diversi casi, arrestati arbitrariamente. Il personale deve anche affrontare intimidazioni e molestie all’aeroporto di Sana’a».

Nonostante questi problemi di accesso, Lowcock ha detto  che «Gli umanitari possono raggiungere le persone bisognose purché dispongano di finanziamenti adeguati» ed ha accolto con favore i recenti stanziamenti di finanziamenti,  compreso quello imminente da 500 milioni di dollari dell’Arabia Saudita che è stato confermato ieri, ma che difficilmente andrà a chi i sauditi continuano a bombardare.

Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha condannato gli attacchi contro gli impianti petroliferi dell’Aramco ad Abqaiq e khurais, e ha chiesto a tutte le parti in causa di «Dar prova di grande calma, prevenire ogni escalation in un contesto di tensioni esacerbate  e di rispettare in ogni momento il diritto internazionale umanitario».

Nonostante l’amministrazione Trump e i sauditi puntino il dito contro l’Iran, Griffiths ha detto al consiglio di sicurezza Onu che «Non si sa bene chi ci sia dietro gli attacchi, ma il fatto che gli  Houthi li abbiano rivendicati è già abbastanza grave. Perché questi attacchi mostrano che lo Yemen sembra allontanarsi dalla pace».

L’agenzia iraniana Pars Today scrive che «I responsabili del devastante attacco del fine settimana contro alcuni impianti petroliferi sauditi, che minaccia di sconvolgere il mercato del greggio in tutto il pianeta, non sono ancora stati individuati, anche se il messaggio lanciato a Riyadh con questa operazione appare chiarissimo e ha a che fare sia con il teatro di guerra dello Yemen sia con l’offensiva in corso contro Teheran da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati».

Intanto l’amministrazione Usa di Donald Tramp dice che l’attacco sarebbe stato portato non solo da una decina di droni, ma anche da missili da crociera, il che darebbe maggior sostegno alle accuse Usa all’Iran  perché, secondo il dipartimento di Stato Usa, i ribelli Houthi non disporrebbero della tecnologia militare militare.

L’Iran respinge sdegnata le accuse, ma il governo Usa ha diffuso diverse immagini secondo le quali l’attacco sarebbe venuto da nord o nord-ovest, cioè dall’Iran o dall’Iraq, ma il New York Times ha fatto notare che «Le fotografie satellitari pubblicate domenica non sembravano così nette come suggerivano i funzionari, con alcune che sembravano mostrare danni sul lato occidentale delle strutture, non dalla direzione dell’Iran o dell’Iraq».

Il sito Middle East Eye, che gli iraniani dicono essere finanziato dal Qatar, ha sostenuto di avere ottenuto informazioni in esclusiva da fonti dell’intelligence irachena, secondo le quali l’attacco non sarebbe partito dallo Yemen ma dal sud dell’Iraq: dalle basi della milizia sciita Hashd al-Shaabi e che l’operazione sarebbe stata decisa in risposta al blitz israeliano di agosto, verosimilmente appoggiato dai sauditi, che distrusse equipaggiamenti militari e uccise un comandante di Hashd al-Shaabi. Ma anche il primo ministro iracheno, Adel Abdul Mahdi, ha smentito che il territorio del suo Paese avrebbe potuto essere utilizzato dai militanti sciiti filo-iraniani per lanciare gli attacchi aerei.

L’Associated Press ricostruisce l’attacco agli impianti petroliferi sauditi in maniera diversa e – attribuendolo agli Houthi yemeniti – ne sottolinea il livello di sofisticazione raggiunto: i droni sono stati utilizzati per primi per disabilitare i sistemi radar US Patriot prima che altri droni iniziassero a eseguire gli attacchi aerei.

Middle East Eye aggiunge però che l’attacco ai giganteschi impianti petroliferi sauditi  rappresenterebbe comunque «Un altro messaggio dall’Iran agli Usa e ai loro alleati che, finché proseguirà l’assedio [contro la Repubblica Islamica], non ci sarà stabilità in tutta la regione mediorientale».

Donald Trump, ha affermato che «Pare che l’Iran sia dietro gli attacchi agli impianti petroliferi sauditi», ma ha aggiunto che, in questo momento, non vuole iniziare una guerra contro l’Iran, anche se gli Usa sono pronti ad attaccare appena i sauditi diranno chi sono i responsabili. Inizialmente l’Arabia Saudita, sotto shock per la vulnerabilità dimostrata da questi attacchi, non aveva fatto alcun cenno all’Iran e solo ieri Riyadh ha detto ufficialmente che le armi utilizzate sarebbero iraniane, mentre non indicano la provenienza dell’attacco.

Tanto per buttare acqua sul fuoco, il capo della Forza aerospaziale dei Corpi della Guardia rivoluzionaria islamica dell’Iran, Amir Ali Hajizadeh, ha risposto che «Tutti devono sapere che le basi e le porta-aerei Usa sono nel mirino dei missili iraniani».

Insomma, le opzioni sul tavolo sembrano in qualche modo condurre comunque ad alleati dell’Iran: le milizie sciite filo-iraniane irakene o gli Houthi yemeniti il cui portavoce, Yahya Sarea ha nuovamente rivendicato gli attacchi contro Abqaiq e Khurais e ha avvertito che gli impianti  Aramco «Sono ancora un obiettivo e potrebbero essere attaccati in qualsiasi momento. Invitiamo il personale straniero a restare lontano dagli impianti dell’Aramco e chiediamo all’Arabia Saudita di fermare la sua aggressione allo Yemen, riferendosi all’aggressione lanciata dalla coalizione militare guidata da Riad contro lo Yemen».

Mentre Washington puntato il dito contro Teheran, il presidente iraniano, Hassan Rohani, è apparso in televisione per dire che «E’ necessaria una tregua nello Yemen per la stabilità della regione. I problemi che affronta la regione devono essere risolti con il dialogo: «Poi ha respinto le accuse degli Usa nei confronti dell’Iran perché «i problemi derivano dalla loro presenza nell’area».

La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha esortato a non saltare a  conclusioni sule responsabilità dell’attacco: «Dovrebbe essere evitata un’escalation inutile nella regione. Pensare a di chi sia la colpa in assenza di un’indagine conclusiva, credo, non è di per sé molto responsabile. La posizione della Cina è che siamo contrari a qualsiasi mossa che espanda o intensifichi il conflitto. Imploro tutte le parti interessate di trattenersi, al fine di salvaguardare la pace e la stabilità in Medio Oriente».

Ma, come se non bastasse, l’agenzia ufficiale Isna annuncia che ieri «Le unità navali dei Pasdaran iraniani hanno sequestrato nello Stretto di Hormuz una nave che contrabbandava gasolio verso gli Emirati Arabi Uniti e nell’operazione è stato fermato anche l’equipaggio. L’imbarcazione è stata fermata vicino all’isola Grande Tumb. L’equipaggio è stato consegnato alle autorità della provincia di Hormozgan, nel sud dell’Iran. La nave sequestrata si chiamerebbe Linch, batterebbe bandiera emiratina».

Oggi però portavoce del ministero degli esteri dell’Iran, Sayyed Abbas Mousavi, ha detto che «Nei prossimi giorni l’Iran rilascerà la petroliera britannica Stena Impero» che era stata sequestrata due settimane dopo il sequestro a Gibilterra della superpetroliera iraniana Grace 1, poi ribattezza Adrian Darya 1, rilasciata il mese scorso. Mousavi ha aggiunto che «Attualmente è in corso la procedura giudiziaria di rilascio della petroliera Stena Impero e la sentenza di rilascio è già stata emessa in base alla realtà dei fatti dal dipartimento giudiziario iraniano, senza mediazioni di terze parti».

Su RT Finian Cunningham scrive che le accuse contro Teheran puntano a nascondere «Lo spettacolare fallimento di Washington nel proteggere il suo alleato saudita. L’amministrazione Trump deve far fare da capro espiatorio all’Iran per l’ultimo assalto militare all’Arabia Saudita perché riconoscere che i ribelli Houthi hanno portato un attacco così audace nel cuore del regno petrolifero sarebbe un’ammissione dell’inadeguatezza americana. L’Arabia Saudita ha speso miliardi di dollari negli ultimi anni acquistando sistemi di difesa missilistica Patriot degli Stati Uniti e una tecnologia radar apparentemente all’avanguardia dal Pentagono. Se i ribelli yemeniti possono far volare droni da combattimento fino a 1.000 chilometri nel territorio saudita e distruggere i siti di produzione di punta nell’industria petrolifera del regno, allora dovrebbe essere una questione di enorme imbarazzo per i “protettori” statunitensi».

Una ferita aperta nella quale ha subito infilato impietosamente il dito Vladimir Putin. Al termine del summit sulla Siria a Istambul con i suoi omologhi di Turchia e Iran, il presidente russo ha affermato che il suo Paese «E’ pronto per dare assistenza adeguata all’Arabia Saudita, sottoforma di sistemi antiaerei russi tipo S-300 o S-400 delle Forze Armate Russe», cos’ come già fatto con Iran e Turchia. Poi Putin ha citato il Libro sacro dell’Islam: «Quanto all’assistenza all’Arabia Saudita, a proposito, nello stesso Sacro Corano si parla come di inaccettabile per qualsiasi tipo di violenza, eccetto che per la protezione del proprio popolo. Con il fine di proteggere il suo popolo, il suo Paese, siamo pronti per fornire assistenza adeguata all’Arabia Saudita».

Putin ha aggiunto che, se accettasse l’offerta russa, «La leadership del regno arabo prenderebbe una saggia decisione  governativa» e ha fatto l’esempio dell’acquisto dei sistemi di missili antiaerei S-300 Favorit da parte dell’Iran e dei sistemi S-400 Triumf  da parte della Turchia.

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), l’Arabia Saudita è il terzo Paese del mondo a spendere di più in armi dopo Usa e Cina ma, con circa 68 miliardi di dollari, è il Paese al mondo che investe la massima percentuale del PIL, l’8,8% in spese militar. Un mercato rifornito anche dall’Italia, ma la maggior parte delle armi saudite proviene dagli Usa con i sistemi missilistici Patriot a fare la parte del leone e che ora l’attacco yemenita ha messo in ridicolo e Putin sfotte.

Cunningham è convinto che l’attacco agli impianti petroliferi sia stato portato degli Houthi. «I ribelli hanno usato i droni sin dall’inizio della guerra che la coalizione saudita-araba appoggiata dagli Stati Uniti ha lanciato sul Paese arabo meridionale nel marzo 2015. Negli ultimi quattro anni, la potenza di fuoco aerea di Houthi è gradualmente migliorata. In precedenza, i sauditi, con i sistemi di difesa americani, erano in grado di intercettare droni e missili dallo Yemen. Ma nell’ultimo anno, i ribelli hanno aumentato il loro tasso di successo nel colpire obiettivi nell’interno saudita, inclusa la capitale Riyadh. Nel maggio di quest’anno, i droni Houthi hanno colpito il fondamentale gasdotto est-ovest dell’Arabia Saudita. Poi, ad agosto, è stato riferito che droni e missili balistici hanno colpito il giacimento petrolifero di Shaybah vicino al confine con gli Emirati Arabi Uniti (Uae), nonché il complesso esportatore di Dammam nella provincia orientale dell’Arabia Saudita».

Certo, dopo più di 4 anni di guerra feroce nello Yemen. tra le ricche corti delle monarchie petrolifere sunnite deve esserci sconcerto e paura: una banda di straccioni sciiti affamati ora li minaccia con inafferrabili droni che potrebbero distruggere le loro economie petrolifere, e questo nonostante i miliardi spesi per ottenere “l’impenetrabile” protezione statunitense costata miliardi di dollari di armi del Pentagono. Ecco perché Washington, Riyadh, Abu Dabi e Tel Aviv tremano e incolpano, con il solito riflesso condizionato. l’Iran “cattivo”.