La resistenza indigena contro oleodotti e trivelle ha ridotto il 25% delle emissioni annuali di gas serra di Usa e Canada

Equivale all’inquinamento di circa 400 nuove centrali elettriche a carbone o di 345 milioni di auto

[16 Settembre 2021]

Il recente rapporto “Indigenous Resistance Against Carbon” di Indigenous Environmental Network (IEN) e Oil Change International (OCI), ha scoperto che, negli ultimi 10 anni, la resistenza guidata dagli indigeni contro 21 progetti di combustibili fossili negli Usa e in Canada ha fermato o ritardato una quantità di emissioni di gas serra q equivalenti ad almeno un quarto delle emissioni annue di Usa e Canada.

“Indigenous Resistance Against Carbon” esalta il lavoro quotidiano e le lotte di innumerevoli nazioni tribali, protettori dell’acqua indigeni, difensori della terra, combattenti anti.pipelines e molte altre organizzazioni di base che hanno dedicato le loro vite a difendere la sacralità della Madre Terra e a proteggere i loro diritti intrinseci di sovranità indigena e autodeterminazione. I ricercatori di IEN e OCI sottolineano che «In questo sforzo, i popoli indigeni hanno sviluppato campagne altamente efficaci che utilizzano un mix di azione diretta non violenta, lobbying politica, multimedia, disinvestimento e altre tattiche per ottenere vittorie nella lotta contro i progetti neoliberisti che cercano di distruggere il nostro mondo attraverso l’estrazione. In questo rapporto, dimostriamo l’impatto tangibile che queste campagne di resistenza indigene hanno avuto nella lotta contro l’espansione dei combustibili fossili in quelli  che attualmente vengono chiamati Canada e Stati Uniti d’America. Più specificamente, quantifichiamo le tonnellate di emissioni di anidride carbonica equivalente (CO2e) che sono state bloccate o ritardate nell’ultimo decennio grazie alle azioni coraggiose dei difensori della terra indigena».

E questo nonostante gli attacchi violenti contro gli attivisti indigeni si siano moltiplicati. Negli ultimi anni, le vittorie ottenute contro i progetti attraverso azioni dirette hanno portato più di 35 Stati  Usa a promulgare leggi anti-protesta, a incarcerare manifestanti pacifici che reagivano alle violenze di polizia e vigilantes privati delle compagnie petrolifere,  migliaia di dollari di multe e persino all’uccisione di noti attivisti.

Dallas Goldtooth, leader del team IEN che ha redatto il rapporto, un’alleanza di popoli indigeni che aderiscono alla conoscenza indigena e alla legge naturale, ha detto a Grist che «Di fronte alla criminalizzazione e alla demonizzazione di coloro che combattono per andare oltre l’utilizzo dei combustibili fossili, la resistenza indigena può mostrarci una via d’uscita. I nostri movimenti sono più forti quando colleghiamo i punti. Quello che i popoli indigeni stanno fornendo è una roadmap che i nostri alleati e sostenitori devono adottare come modo per affrontare la crisi climatica».

Il rapporto evidenzia che «I diritti e le responsabilità degli indigeni sono molto più che strumenti retorici: sono strutture tangibili che influiscono sulla fattibilità dell’espansione dei combustibili fossili».

Grazie alla lotta sul campo e di persona che ha portato al blocco dei lavori e di progetti già approvati (spesso forzando la normativa vigente e i diritti tribali),  la resistenza indigena ha fermato progetti che avrebbero prodotto 780 milioni di tonnellate di gas serra all’anno e sta combattendo attivamente progetti che ogni anno scaricherebbero più di 800 milioni di tonnellate di gas serra nell’atmosfera.

Lo studio di IEN e OCI, che ha utilizzato dati e calcoli pubblici di 9 diversi gruppi di regolamentazione ambientale e petrolifera, ha rilevato che «Sono state fermate circa 1.587 miliardi di tonnellate di emissioni annuali di gas serra. Questo è l’inquinamento equivalente di circa 400 nuove centrali elettriche a carbone – più di quelle ancora in funzione negli Stati Uniti e in Canada – o circa 345 milioni di veicoli passeggeri: più di tutti i veicoli in circolazione in questi Paesi». La resistenza indigena ha anche avuto un gigantesco impatto politico, aiutando a spostare il dibattito pubblico sui combustibili fossili e sui diritti degli indigeni e a bloccare i progetti ad alta intensità di carbonio. Il rapporto fa notare che «Queste cifre impressionanti  sottovalutano anche la resistenza indigena totale, poiché questo rapporto si concentra solo sui progetti più grandi e iconici».

Goldtooth spiega che «Da una prospettiva indigena, quando affrontiamo la crisi climatica, stiamo intrinsecamente affrontando anche i sistemi di colonizzazione e della supremazia bianca. Per farlo, devi rivalutare il modo in cui ti relazioni con il mondo che ti circonda e definire quali sono i tuoi obblighi nei confronti del mondo che ti circonda. È più che fermare lo sviluppo del fracking e le pipeline ed è molto più che produrre energia pulita, si tratta in realtà di cambiare radicalmente il modo in cui vediamo il mondo stesso».

Chi protestava pacificamente contro progetti come Dakota Access Pipeline  è stato definito “jihadista” e “terrorista” e l’appaltatore privato ha usato armi e tattiche  militari per minare, screditare e punire le lotte dei difensori dell’ambiente. «Tattiche che – denuncia il rapporto – includevano infiltrazione, provocazione, interruzione delle comunicazioni, sorveglianza aerea e intercettazioni radio. L’intimidazione ha comportato l’uso di forze ampie e visibili di personale pesantemente armato e mezzi di trasporto del personale, nonché droni e sorveglianza aerea. La “task force” schierata contro i difensori includeva agenti dell’ U.S. Federal Bureau of Investigation, U.S. Department of Homeland Security, U.S. Justice Department and Marshals Service, and U.S. Bureau of Indian Affairs Federal Bureau of Investigation». E le forze dell’ordine federali e Statali trasmettevano rapporti giornalieri “dal campo di battaglia” direttamente all’impresa: Energy Transfer Partners.

Attivisti indigeni e ambientalisti “bianchi” sono stati feriti gravemente, picchiati e arrestati arbitrariamente, ma alla fine la brutalità delle forze di sicurezza private ha provocato l’indignazione di gran parte dell’opinione pubblica.

Oltre alla violenza fisica, la riserva di Sioux di Standing Rock è stata punita economicamente dallo Stato del North Dakota e le vittorie faticosamente conquistate dalla resistenza indigena sono state ribaltate quando alla casa Bianca si è insediato Donald Trump che ha subito riconcesso le licenze annullate da Barack Obama, Una vicenda che ha portato addirittura il relatore speciale dell’Onu  sui diritti dei popoli indigeni, Victoria Tauli-Corpuz, ed Edward John del Forum permanente dell’Onu sulle questioni indigene a condannare la violazione dei diritti umani e indigeni da parte di Energy Transfer Partners e delle forze di sicurezza federali, statali e locali. La Tauli-Corpuz ha specificamente denunciato «La violazione da parte della compagnia e del governo del diritto alla terra della tribù

Il rapporto e l’analisi dei dati di Goldtooth, Alberto Saldamando e Tom Goldtooth di IEN e Kyle Gracey e Collin Rees di OCI, hanno lo scopo di sfatare il mito che i difensori della terra e quelli in prima linea nelle lotte contro i progetti di combustibili fossili non stanno avendo impatto. «Questo rapporto è motivo di festa – evidenzia  Goldtooth su Grist – Quando fai un passo indietro e guardi il lavoro che i popoli indigeni hanno svolto nel corso degli anni e dei decenni, vedi che collettivamente stiamo davvero avendo un enorme impatto a beneficio di questo pianeta. Conferma ciò che abbiamo costantemente affermato: riconoscere i diritti degli indigeni protegge l’acqua, protegge la terra e protegge il nostro futuro».

Il rapporto mette in evidenza sia grandi battagli ormai famose, come la vittoria contro il gasdotto Keystone XL, le lotte in corso contro gli oleodotti Dakota Access e la Line 3, sia battaglie meno conosciute come quelle contro l’oleodotto Mountain Valley in West Virginia e il Rio Grande terminale per l’esportazione di gas naturale liquefatto in Texas.

Nel rapporto si legge: «Il nostro obiettivo è duplice: primo, che i difensori della terra indigeni siano incoraggiati a vedere i risultati collettivi dei loro sforzi e utilizzino queste informazioni come risorsa per ottenere ulteriore supporto. Secondo, che i rappresentanti, le organizzazioni, le istituzioni e gli individui degli stati-nazione dei coloni riconoscano l’impatto della leadership indigena nell’affrontare il caos climatico e i suoi principali fattori. Ci auguriamo che questi  coloni, alleati o meno, arrivino a schierarsi con i popoli indigeni e onorino i diritti intrinseci dei primi popoli di Turtle Island – la terra attualmente chiamata Nord America – implementando politiche e procedure chiare basate sul consenso libero, preventivo e informato e ponendo fine una volta per tutte all’espansione dei combustibili fossili».

Goldtooth conclude: «La vera speranza del rapporto era quella di dimostrare alla gente che stiamo vincendo e che possiamo vincere e  che queste lotte sono collegate tra loro, sono un ecosistema che sta aprendo la strada a un mondo migliore».