Il Pentagono è il più grande singolo emettitore di gas serra del mondo

Le forze armate statunitensi consumano più combustibili fossili rispetto alla maggior parte dei Paesi del mondo

[11 Ottobre 2022]

L’esercito statunitense ha un passato ambientalmente devastante che arriva fino ai giorni nostri, come nel dicembre 2021, quando nelle Hawaii circa 6.000 persone si sono ammalate a causa del carburante fuoriuscito da un deposito della Marina militare risalente alla seconda guerra mondiale. E’ noto che nella base militare di Camp Lejeune, nella North Carolina, circa un milione sono state esposte per 3 25 anni all’acqua potabile contaminata e che nelle basi militari costruite per le guerre americane successive all’11 settembre, la spazzatura veniva spesso incenerita in semplici in fosse di combustione dove dentro viene gettato di tutto: dai computer ai mobili, ai rifiuti sanitari che rilasciavano fumo tossico, respirato sia dai soldati che dai civili. Eppure, nonostante questi disastri ambientali, le enormi emissioni di CO2 prodotte dalle attività quotidiane dei militari Usa hanno ricevuto relativamente poca attenzione

Con il suo nuovo libro, The Pentagon, Climate Change, and War: Charting the Rise and Fall of US Military Emissions  Neta C. Crawford, una politologa della a Boston University, punta a risolvere questo problema e scrive; «Sebbene dalla metà del XX secolo il Pentagono sia stato in prima linea nella ricerca sui cambiamenti climatici, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (DOD) è anche il più grande utilizzatore istituzionale di combustibili fossili al mondo. Dal 2001, i militari sono stati responsabili del 77-80% del consumo energetico federale. Il DOD gestisce più di 560.000 edifici in circa 500 basi in tutto il mondo, che costituiscono gran parte delle sue emissioni. E come una gigantesca multinazionale, fa affidamento su una vasta rete di navi, camion, aerei e altri veicoli a combustibili fossili per supportare le sue operazioni, dallo sgancio di bombe alla consegna di aiuti umanitari, tutto ciò rende l’esercito un contribuente  fondamentale alla modificazione del clima. E sebbene ricerche recenti abbiano dimostrato che l’esercito americano è uno dei maggiori inquinatori della storia, tende ancora a essere trascurato negli studi sui cambiamenti climatici».

Il libro della Crawford cerca di colmare questa lacuna nella ricerca, raccontando come le forze armate statunitensi siano state coinvolte in un ciclo a lungo termine di crescita economica, uso di combustibili fossili e dipendenza. Ruqaiyah Zarook di Mother Jones l’ha intervistata per saperne di più.

L’interesse della Crawford per l’mpronta ambientale dell’esercito Usa è iniziato con un piccolo articolo scritto per il Costs of War Project, di cui è co-direttrice,  un’iniziativa della Brown University che analizza le implicazioni delle guerre post 11 settembre in Iraq e Afghanistan e la relativa violenza in Pakistan e Siria in termini di vittime umane, costi economici, e le libertà civili. Il nuovo libro è un’esplorazione molto più ampia, sia storicamente che strategicamente, sulle emissioni militari-industriali degli Stati Uniti.

La Crawford spiega che «Negli ultimi due anni, le emissioni militari statunitensi sono di circa 51 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 all’anno. Si tratta di una riduzione rispetto alle emissioni militari del passato, ma comunque superiore alle emissioni della maggior parte dei Paesi. Questo non include le emissioni causate dalla distruzione di proprietà – l’incendio di infrastrutture, comprese le città – in cui gli Stati Uniti potrebbero essere coinvolti quando fanno la guerra. Le emissioni annuali del DOD negli Stati Uniti sono circa l’1% delle emissioni totali degli Stati Uniti. Se si aggiungono le emissioni militari-industriali, stimo che le emissioni militari e militari-industriali [delle industrie nazionali che producono armi e attrezzature] siano circa il 2% delle emissioni totali degli Stati Uniti».

Quanto al paradosso che il Pentagono sia stata una delle prime istituzioni a riconoscere il cambiamento climatico mentre resta il più grande consumatore istituzionale di combustibili fossili al mondo, la Crawford evidenzia che «Prima di tutto il Pentagono guarda al mondo in termini di minacce, ma non vede il suo ruolo nell’aumento delle emissioni di gas serra come parte del problema. Lavora anche molto duramente per ridurre le emissioni, ma le sue riduzioni delle emissioni non sono a un livello davvero fondamentale. E la dottrina militare statunitense non è cambiata per tener conto del fatto che il petrolio del Golfo Persico è stato una fonte in diminuzione di input di petrolio per gli Stati Uniti e, nel complesso, l’uso di petrolio è diminuito. Quindi, abbiamo la stessa dottrina militare in un mondo che cambia, ma questa dottrina militare porta a emissioni di gas serra. Gli Stati Uniti si sono preoccupati molto di assicurarsi che la loro dottrina militare si concentri sulla sicurezza dell’accesso [al petrolio]. E questo fornendo equipaggiamento militare e denaro agli alleati regionali, avendo basi e personale lì e mantenendo la loro capacità di spostare rapidamente le forze militari nella regione, al fine di proteggere l’accesso al petrolio. Quindi quella dottrina sostanzialmente non è cambiata dalla fine degli anni ’70, all’inizio degli anni ’80».

La ricercatrice conosceva già i modi in cui l’esercito e il Dipartimento della Difesa Usa avevano cercato di tenere le emissioni di gas serra militari fuori dal processo di conteggio del Protocollo di Kyoto del 1997, in modo che non facessero parte della rendicontazione nazionale delle emissioni. Ma analizzando i documenti riservati e da ulteriori ricerche la Crawford  ha scopetrto che «Si è trattato di uno sforzo molto sostenuto e influente, quindi la profondità del loro sforzo mi ha sorpreso. Inoltre, ho appreso che la dipendenza degli Stati Uniti dal carbone nel XIX secolo è parallela e precede la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio. La necessità, ad esempio, di ottenere basi alle Hawaii per essere sicuri di avere giacimenti di carbone che si possono caricare sulle navi, precede o è parallela all’interesse degli Stati Uniti ad avere basi all’estero per il petrolio. Tornando al XIX secolo, ho capito molto meglio come abbiamo ottenuto l’infrastruttura delle basi e delle installazioni che abbiamo oggi e quanto strettamente fossero legate alla necessità, o alla necessità percepita, di avere accesso al carburante per fare la guerra o per alimentare gli interessi economici degli Stati Uniti».

La Zarook è rimasta colpita dalla vtesi secondo la quale, se non fosse stato per le guerre successive all’11 settembre, l<il trend ribasso delle emissioni militari visto dopo la Guerra Fredda sarebbe probabilmente continuato e la Crawford le fa notare che «Dopo la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti stavano abbandonando il carbone e chiudevano le basi militari che non erano più necessarie: questo faceva parte del “processo di chiusura del riallineamento delle basi”, che è il processo autorizzato dal Congresso che il Dipartimento della Difesa ha utilizzato per riorganizzare la sua struttura di base per renderla più efficiente ed efficace. Ci sono stati diversi round di base realignment enclosure, quindi le basi militari sono diminuite dalle 2.000 basi di allora alle circa 800 basi dioggi. Quindi, c’è stato un declino nell’impronta dell’istituzione militare. E’ pericoloso che le tue forze siano così legate alle linee di alimentazione e alle comunicazioni. Se un serbatoio esaurisce il carburante nel bel mezzo di un’operazione, ciò mette a rischio le persone. Devi trasportare carburante attraverso lunghe linee di comunicazione dove ci sono persone potenzialmente ostili, e questo è preoccupante e mette a rischio anche le persone. Abbiamo visto che c’è stato un maggiore interesse per l’efficienza a causa di quella vulnerabilità, e le tendenze nel volere carburante più ecologico e nel ridurre le dimensioni dell’esercito perché non era più necessario combattere la minaccia sovietica, una maggiore efficienza, portando a un calo emissioni complessive delle forze armate statunitensi dell’epoca. Ma ovviamente, dopo l’11 settembre, il consumo di carburante è aumentato e quindi le emissioni sono cresciute».

Il libro evidenzia che la grande strategia Usa per la sicurezza nazionale si basa sull’anticipazione e sulla paura della guerra e la Crawford conferma «Tutti i militari sono preoccupati per questo: questo è il loro lavoro. Il punto che sto cercando di sottolineare è che la potenziale guerra, diciamo con la Russia o la Cina, o qualsiasi altro possibile avversario, è proprio questo: è possibile. Il cambiamento climatico è certo. E sappiamo che sta arrivando. Nel prepararci a questa possibile eventualità, stiamo sottraendo risorse all’affrontare i fatti certi della necessità di ridurre le emissioni militari. Prepararsi alla guerra causata dai cambiamenti climatici è controproducente perché sottrae risorse per la mitigazione, ovvero la riduzione delle emissioni, e l’adattamento che potrebbero ridurre la probabilità di una guerra causata dai cambiamenti climatici. Storicamente, quando le risorse sono scarse, le società trovano spesso il modo di adattarsi e cooperare. Anche la guerra causata dai cambiamenti climatici non è inevitabile. È possibile, ma non deve verificarsi».

Per la ricercatrice l’interruzione del ciclo della militarizzazione e delle emissioni è una delle cose più importanti che i governi possono fare per rendere possibile un mondo più pacifico e secondo lei la guerra in Ucraina  dimostra che «E’ possibile per una forza civile ben addestrata, insieme ad alcuni militari professionisti, fermare una superpotenza. Quello che sostengo è che abbiamo speso eccessivamente e affrontato  in modo eccessivo prima la minaccia sovietica e ora la minaccia russa. E quello che stiamo facendo in questo momento orientandoci verso la Cina sta inducendo, credo, i cinesi a rispondere aumentando la loro capacità militare. E stiamo aumentando le nostre capacità militari perché stanno mostrando un maggiore interesse economico nel Golfo Persico e in Africa. La Cina lì ha una base militare. Noi abbiamo centinaia di basi militari all’estero. Ma questa rivalità non deve essere per forza una rivalità militare. Stiamo facendo così e aumentano le loro emissioni militari mentre rispondono a quello che gli scienziati sociali chiamano il “dilemma della sicurezza”, ovvero ciò che un’entità fa per difendersi, proteggersi, può essere percepita come aggressiva dall’altra, e poi si entra in questo ciclo di azione e reazione. E questa è la strada per fare in modo che le emissioni complessive delle forze armate statunitensi possono potenzialmente continuare ad aumentare».

Il Pentagono sembra puntare a diventare una “lean green fighting machine” e la Crawford è convinta che ce la possa fare: «Le forze armate statunitensi possono cambiare il loiro status nel Golfo Persico riducendo le forze militari di stanza lì – le migliaia di persone che sono sempre pronte, la portaerei alla quale hanno sempre almeno 10 navi associate, tutti pronti a difendere l’accesso a quel petrolio del Golfo che, in effetti, non dovremmo usare, perché continuare a pompare gas serra nell’atmosfera alla velocità con lo facciamo ci ucciderebbe. Gli aerei sono i maggiori emettitori di gas serra all’interno delle emissioni operative delle forze armate statunitensi, quindi potrebbero apportare modifiche al tipo di carburante, ai biocarburanti. Ma, dal mio punto di vista,  più importante del tipo di carburante è ripensare la postura geopolitica americana. Dobbiamo davvero essere in quei posti a pilotare quegli aerei, a manovrare quelle navi e avere quelle persone trasportate lì in modo più o meno permanente?»

Per riuscire a scrivere il suo libro la Crawford  ha dovuto affrontare non pochi problemi e conclude così la sua intervista a Mother Jones; «Penso che per me l’ostacolo maggiore fosse la mancanza di trasparenza e il risultato di fare manualmente i calcoli, dal momento che le cifre non erano pubblicamente disponibili. Se non abbiamo i numeri, non possiamo avere questa discussione sulle emissioni di gas serra dell’esercito americano. I militari sono informati del fatto che sono il più grande consumatore di petrolio negli Stati Uniti. E’ chiaro che lo sanno. Ora, grazie al cielo, il Congresso ha richiesto che rivelassero le loro cifre e si spera che le persone come me non debbano continuare a fare questi calcoli. Altre persone hanno fatto stime, ma le hanno fatte per un solo anno, o per un solo periodo di guerra, ma è molto importante avere un quadro generale in modo da poter capire le tendenze. Penso che sia interessante che il consumo di carburante sia diminuito costantemente a partire dal 1975 e poi sia aumentato, e come questo tiene traccia della guerra. Ora, certo, te lo aspetteresti, ma questo libro lo mostra davvero. La cosa importante per il discorso pubblico è che noi abbiamo queste informazioni di base, e sono davvero grato che il Congresso le  richieda attraverso il più recente National Defense Authorization Act».