Blue acceleration: la pressione umana sugli oceani non mostra nessun segno di rallentamento

Quantificati recenti colossali aumenti della pressione umana sull'oceano

[27 Gennaio 2020]

Secondo lo studio “The Blue Acceleration: The Trajectory of Human Expansion into the Ocean”, pubblicato su One Earth cda un team di ricercatori dello Stockholm Resilence Centre della Stockholms universitet, «All’inizio del XXI secolo la pressione umana sull’oceano del mondo ha subito una brusca accelerazione e non mostra alcun segno di rallentamento». Gli scienziati hanno definito questo preoccupante aumento “Blue Acceleration”.

Il team di ricercatori dello Stockholm Resilence Centre ha sintetizzato 50 anni di dati riguardanti trasporti marittimi,
trivellazioni, attività minerarie in acque profonde, acquacoltura, bioprospezione e molto altro ancora e dicono che «La più grande industria oceanica è il settore petrolifero e del gas, responsabile di circa un terzo del valore dell’ocean economy. Sabbia e ghiaia sono i minerali più estratti dell’oceano per soddisfare la domanda dell’industria delle costruzioni».

L’alternativa all’estrazione dei combustibili fossili sono le energie rinnovabili e lo studio evidenzia che « Le energie rinnovabili marine derivate dal vento o dalle onde sono tra le soluzioni con il più grande potenziale per soddisfare la crescente domanda globale di energia riducendo le emissioni di carbonio. La maggior parte delle turbine e dei parchi eolici su vasta scala sono stati installati vicino alla costa, ma recenti studi indicano la possibilità di una produzione di energia eolica ancora maggiore in aree oceaniche aperte, stimolando lo sviluppo di tecnologie per la produzione dell’energia eolica in ambienti di acque profonde».

Lo studio affronta anche brevemente il problema molto dibattuto della geoingegneria marina: «sempre più suggerita come un modo per sequestrare il carbonio, sia nel fondo sottomarino che attraverso la fecondazione oceanica. Questo è un caso speciale di dumping oceanico, altrimenti presumibilmente limitato a materiale dragato, scarti di pesce e strutture artificiali».

Mentre l’acqua dolce sta diventando un prodotto sempre più scarso, negli ultimi 50 anni in tutto il modo sono stati costruiti circa 16.000 impianti di dissalazione, con un forte aumento a partire dal 2000, e con una capacità globale di oltre 95 milioni di m 3 al giorno. La dissalazione dell’acqua di mare rappresenta il volume maggiore (59%), seguita da quella dell’acqua salmastra (21%) e altre acque di alimentazione meno saline. Lo studio non sembra intravvedere grossi problemi per lo sviluppo della dissalazione ed evidenzia che «Nuovi progetti di dissalazione acqua-oceano sono in aumento, tra cui impianti galleggianti di desalinizzazione costruiti su navi e strutture offshore, che hanno il vantaggio di essere mobili».

Poi c’è la crescente industria turistica: «Lo spazio oceanico è anche intrinsecamente necessario per il turismo marino e costiero, il secondo datore di lavoro nell’economia oceanica e uno dei segmenti in più rapida crescita dell’industria turistica mondiale. Oltre il 40% della popolazione mondiale vive in aree a meno di 200 km dall’oceano e 12 megalopoli su 15 sono costiere. Man mano che la popolazione, l’attività economica e l’urbanizzazione continuano ad aumentare nelle aree costiere, la bonifica dei terreni è diventata fondamentale per risolvere la carenza di terreni e soddisfare la crescente necessità di spazi urbani e industriali. La Cina, in particolare, sta guidando il mondo in progetti di bonifica su larga scala, estendendo le sue coste di centinaia di chilometri quadrati ogni anno».

Il principale autore dello studio, Jean-Baptiste Jouffray, che lavora anche per il Global Economic Dynamics and the Biosphere Academy Programme dell’Accademia reale svedese delle scienze, sottolinea che «Rivendicare risorse e spazio oceanici non è una novità per l’umanità, ma l’estensione, l’intensità e la diversità delle aspirazioni odierne non hanno precedenti».

Secondo lo studio “Transnational Corporations as ‘Keystone Actors’ in Marine Ecosystems” pubblicato su PLOS ONE nel 2015, «Solo 13 corporations controllano il 19 – 40% degli stock ittici più grandi e preziosi e l’11 – 16% delle catture marittime globali» e gli autori del nuovo studio concludono chiedendo a chi sta premendo sull’acceleratore blu maggiore attenzione a cosa sta finanziando e chi ne beneficia.

Jouffray è anche il principale autore dello studio “Leverage points in the financial sector for seafood sustainability”, pubblicato nell’ottobre 2019 su Science Advances da un team che comprendeva ricercatori svedesi, olandesi e britannici e dal quale emerge che «L’introduzione di criteri di sostenibilità negli accordi sui prestiti bancari e le regole di quotazione in borsa ridurrebbero significativamente la pressione sulle risorse ittiche».

Jouffray fa notare che «Quasi il 90% della pesca mondiale è pienamente sfruttata o sovrasfruttata e si prevede che la domanda di prodotti di mare crescerà del 70% entro il 2050. Tuttavia, quando abbiamo esaminato quasi un decennio di informazioni sui media, non è stato possibile trovare notizie di un solo prestito bancario all’industria ittica che includesse criteri di sostenibilità».

I prestiti bancari sono il modo principale con il quale le compagnie ittiche finanziano le loro operazioni. I prestiti derivano sempre da loan covenants: accordi tra un prestatore e un mutuatario che stipulano condizioni e vietano al mutuatario un certo comportamento e una delle autrici dello studio pubblicato su Science Advances, Beatrice Crona del Global Economic Dynamics and the Biosphere Academy Programme, sottolinea che «Incorporando i criteri di sostenibilità nella loan covenant e vincolando le compagnie a pratiche sostenibili, le banche potrebbero svolgere un ruolo chiave nel promuovere una rapida trasformazione verso pratiche sostenibili, non solo nei prodotti ittici ma in tutti i prodotti di base. La rapida crescita dei prestiti legati alla sostenibilità dimostra che ciò può essere fatto, ma tali criteri devono diventare mainstream».

Lo studio evidenzia inoltre che la maggior parte delle società quotate in borsa tra le 100 più grandi aziende ittiche del mondo sono quotate in una manciata di borse. La sola Tokyo Stock Exchange concentra il 53% delle entrate delle compagnie ittiche quotate, mentre le quattro maggiori (Tokyo, Oslo, Corea e Thailandia) rappresentano insieme l’86%».

Un’altra autrice dello studio, Emmy Wassénius dello Stockholm Resilence Centre, fa notare che «Criteri di sostenibilità più rigorosi nei requisiti di quotazione sono una modalità chiave con cui le borse possono fungere da gatekeepers e promuovere la sostenibilità».

Nel 20121 l’Onu darà il via al “decennio dell’oceano” e secondo gli scienziati «Questa è un’opportunità per valutare gli impatti socio-ecologici e gestire le risorse oceaniche per la sostenibilità a lungo termine» e sottolineano che «Esiste un alto grado di consolidamento relativo all’industria ittica, allo sfruttamento di petrolio e gas e alla bioprospezione, con solo una manciata di società multinazionali che dominano ciascun settore».

Per questo il team dello Stockholm Resilence Centre invita le banche e gli altri investitori ad «Adottare criteri di sostenibilità più rigorosi per gli investimenti oceanici».