Allungare la vita dei prodotti per raggiungere l’orizzonte proposto da Keynes

Un’economia più circolare per lavorare meno. A parità di salario?

Un nuovo studio italiano mostra che una riduzione dell’orario di lavoro non richieda necessariamente anche una riduzione del salario

[22 Novembre 2022]

In una conferenza tenuta poco prima della grande depressione del 1929 (il cui testo fu pubblicato nel 1931) J.M. Keynes avanzò l’idea che l’aumento della produttività avrebbe progressivamente ridotto le ore di lavoro settimanali portandole, nel giro di un secolo, a 15. Sono passati quasi cento anni e il mondo sembra ancora molto lontano da questo traguardo, nonostante gli enormi progressi tecnologici.

La spiegazione data da molti studiosi punta il dito sul consumismo e sulla continua creazione sociale di nuovi bisogni che, stimolando l’insaziabilità del consumatore (cfr. ad es., Pecchi and Riga, 2010) obbligano a lavorare più tempo per produrre e consumare sempre più beni.

Se questo è innegabile, occorre anche riconoscere che la grande abbondanza di combustibili fossili, e dunque il loro prezzo molto basso, ha indotto uno sviluppo economico per nulla attento ai consumi di materiali. La vita utile dei prodotti si è accorciata drasticamente e la loro riparazione è divenuta via via sempre più difficile; da anni viviamo l’epoca della cosiddetta “obsolescenza programmata”, un fenomeno riconosciuto oggi anche da istituzioni internazionali, inclusa l’Unione europea che ha preso diverse iniziative per combatterla, anche all’interno della strategia per l’economia circolare.

Il recente studio The circular economy and longer product lifetime: Framing the effects on working time and waste, appena pubblicato sul Journal of cleaner production (e disponibile gratuitamente fino al 22/12/2022) a nome di T. Luzzati, T. Distefano, S. Ialenti e V. Andreoni, affronta di nuovo l’argomento della mancata riduzione di lavoro nonostante il progresso tecnologico, volgendo lo sguardo al grande spreco di energia e materia imposto dai bassi prezzi dell’energia.

La prima questione è comprendere quanto grande sia effettivamente la distanza tra la predizione di Keynes e la realtà odierna. Se infatti l’orario di lavoro è lontano dalle 15 ore settimanali, è anche vero che oggi, rispetto a 90 anni fa, godiamo di un maggior numero di giorni di ferie, possiamo permetterci di mandare i nostri giovani a scuola per un numero molto maggiore di anni, di lavorare a tempo parziale e, più in generale, una parte minore della popolazione fa parte della forza lavoro.

Per tener conto di questo effetto, l’articolo prende come riferimento non l’orario di lavoro ma le ore lavorate pro-capite, un indicatore che esprime quante ore di lavoro sono impiegate in un certo periodo di tempo per mantenere la popolazione del Paese.

Al tempo in cui Keynes scrisse il suo saggio, nel Regno Unito un lavoratore era assorbito dalla sua occupazione per 49 ore settimanali in media, per calare poi a 41 negli anni ’50, il che significa 19,4 ore di lavoro settimanale procapite (ovvero includendo nel computo non solo i lavoratori ma l’intera popolazione nazionale). In quest’ottica, l’ipotesi di Keynes – produttività del lavoro triplicata in 100 anni – condurrebbe a circa 7 ore settimanali di lavoro a livello procapite nel 2030. Di fatto però ad oggi siamo molto lontani da questo traguardo: nei Paesi più ricchi dell’Ue, gli Stati EU15, il dato galleggia attorno alle 15 ore alla settimana procapite, un valore cui si è giunti negli anni ’80 dopo il forte e costante declino avviatosi dal secondo dopoguerra, quando l’indicatore era pari a 19 ore pro-capite.

Appurato dunque che la mancata riduzione dei tempi di lavoro non è imputabile a una minor partecipazione al mercato del lavoro, l’articolo evidenzia, attingendo a diversi database internazionali a libero accesso, come il consumo di materia dei Paesi EU15 continui ad aumentare quando si includa la stima dei materiali impiegati per produrre i beni importati. Ugualmente in crescita è la generazione di rifiuti.

Questi dati nel loro complesso sono impiegati dagli autori per avanzare l’idea che la mancata riduzione dell’orario di lavoro dipenda proprio dalla bassissima efficienza materiale implicita in una breve durata della vita dei prodotti.

Richiamando la metafora della economia della finestra rotta, avanzata dall’economista francese Bastiat nel 1850, e che possiamo concretamente vedere nel film “il monello” di Chaplin, gli autori affermano che una larga parte dei tempi di lavoro sono dedicati a generare beni che divengono in breve tempo spazzatura.

Che cosa succederebbe se la garanzia dei prodotti durevoli passasse dagli attuali 2 anni a 5 o a 10? Oppure, che cosa succederebbe se la concentrazione dei detersivi venisse, per legge, raddoppiata? Prendiamo questa ultima ipotesi. È chiaro che la quantità di lavaggi garantiti dai detersivi richiederebbe la metà dei flaconi, la metà dei chilometri di trasporto, la metà del tempo di lavoro del camionista, la metà del carburante, la metà dei rifiuti e via dicendo.

Considerato, tuttavia, che la quantità di servizio offerto da un flacone concentrato rimarrebbe invariata, dovrebbe rimanere invariato anche il suo prezzo finale. Questo potrebbe valere lungo tutta la catena del valore cosicché, ipoteticamente, il camionista, ad esempio, potrebbe continuare a ricevere lo stesso salario dimezzando il proprio tempo di lavoro. L’ostacolo a questa riduzione di tempo di lavoro sarebbe ovviamente la concorrenza sul mercato del lavoro in tutti i settori interessati da questa modifica istituzionale, con il probabile esito che alla fine siano soprattutto le imprese ad appropriarsi del surplus venutosi a creare con la maggior concentrazione dei detergenti/detersivi.

Le politiche dell’Ue di lotta all’obsolescenza programmata e più in generale di risparmio dei materiali si configurano in effetti come shock positivi in alcuni settori e non in altri. Lo studio di come questo guadagno di efficienza si possa effettivamente trasferire agli altri settori e ai diversi fattori produttivi diviene dunque essenziale per comprendere come le politiche di lotta agli sprechi di materia possano tradursi in una riduzione del tempo di lavoro, della quantità di materia usata e dei rifiuti generati.

In ogni caso, l’articolo mostra come una riduzione dell’orario di lavoro non richieda necessariamente anche una riduzione del salario. Riuscire a rompere il circolo vizioso dell’economia della finestra rotta garantirebbe più tempo da dedicare alle relazioni personali, al lavoro di cura e non di mercato, al tempo libero, generando meno inquinamento e meno spazzatura. Il Pil non cambierebbe, ma aumenterebbe il benessere.

Keynes, J.M. (2010) [1931]. Economic possibilities for our grandchildren. In Essays in persuasion (pp. 321-332). Palgrave Macmillan, London.

Pecchi L., Piga G. (Eds.) (2010). Revisiting Keynes: economic possibilities for our grandchildren. Mit Press.