Bruyninckx: «Abbiamo bisogno di facilitare la transizione verso un’economia circolare»

Rinnovabili e risorse, l’Europa ha il fiato corto nella corsa allo sviluppo sostenibile

Il nuovo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente: la Cina ha superato i nostri investimenti già nel 2013

[17 Marzo 2016]

Nel suo nuovo rapporto Renewable energy in Europe 2016: recent growth and knock-on effects, l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) rende una panoramica sull’impatto e la produzione di energia da fonti rinnovabili nel Vecchio continente. Il quadro che ne esce è esaltante, ma rispecchia una realtà sulla quale si affacciano (se non sono già presenti) oscure zone d’ombra.

Il dossier, pubblicato oggi, sconta il passo lento che caratterizza molte pubblicazioni che fanno un uso intenso di complessi dati statistici, e nei fatti scatta una fotografia ferma al 2014. L’Unione europea che esce da questo fermo immagine è un attore che gioca «un ruolo di primo piano nello sviluppo di fonti di energia pulita», oltre ad essere ai vertici mondiali «per quanto riguarda l’occupazione nel settore delle energie rinnovabili».

In effetti, i dati messi in fila dall’Eea mostrano che le fonti di energia rinnovabili hanno «un ruolo chiave nella transizione energetica dell’Europa e sono complementari politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici migliorando al contempo la sicurezza energetica» del continente. In particolare, l’Europa del 2014 confrontata con quella di anni prima ha un volto molto più pulito. Il consumo finale lordo di energia è coperto per il 16% da fonti rinnovabili, quando solo nel 2012 era al 14,3%. Guardando all’era pre-crisi (anno 2005), questo significa una riduzione nella domanda di combustibili fossili di 110 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep): detto altrimenti, ciò equivale ad una riduzione lorda delle emissioni di gas serra per 362 milioni di tonnellate (Mt). Non a caso, a subire un maggior tasso di sostituzione è stato il carbone, il combustibile più inquinante.

L’idillio, però, come risulta evidente dalla lettura del rapporto, già allora si era incrinato. «Dal 2005 – riporta l’Eea – l’Europa ha aperto la strada a finanziare lo sviluppo delle energie rinnovabili», con la sua quota di investimenti «oscillante tra il 40-50% fino al 2011». Non solo. «I finanziamenti pubblici in ricerca e sviluppo per le nuove fonti di energia rinnovabili è aumentata tra il 2005 e il 2013, ma – riconosce l’Eea –ad un ritmo più lento rispetto a prima». Ciò concretizza il «rischio di perdere le tecnologie break-through di domani», quelle delle prossime e ormai imminenti svolte. L’Ue ha mantenuto per anni la quota più alta al mondo di investimenti in tecnologie rinnovabili, spianando la strada al mondo, per essere poi superata nel 2013 dalla Cina.

L’Italia, dopo anni di folgoranti successi, si è incamminata su un percorso simile. Anzi, accentuato vista l’eccellenza raggiunta negli anni passati. «Come risultato della crescita nazionale del consumo di energia da fonti rinnovabili a partire dal 2005 – ricorda l’Eea –  la Germania, l’Italia e la Spagna hanno raggiunto la più grande riduzione del consumo domestico di combustibili fossili domestico e delle relative emissioni di gas serra evitate». Questo nel 2013. La realtà più recente vede un Paese che sta mollando la presa. Proprio mentre si innalzano i record di produzione raggiunti nel mondo, l’Italia – che questi risultati ha indirettamente foraggiato, innalzando la propria quota di energia pulita – vede gli investimenti in rinnovabili in fuga, complici indirizzi normativi normativi tutt’altro che lungimiranti. E questo nonostante il Gse abbia appena certificato, nel suo Rapporto attività 2015, che nell’anno scorso in Italia siano stati erogati oltre 15 miliardi di euro di incentivi agli impianti di produzione da fonti rinnovabili. Si tratta di una politica intelligente?

La stessa domanda dovrebbe essere formulata, per l’Italia come per l’Europa, su un’altra e ancor più fondamentale gamba dello sviluppo sostenibile, quella dei flussi di materia. Il direttore esecutivo dell’Eea, Hans Bruyninckx, spiega che attualmente il nostro uso delle risorse naturali «non è sostenibile e sta mettendo pressione sul nostro pianeta. Abbiamo bisogno di facilitare una transizione verso un’economia circolare», andando oltre alla “sola” gestione dei rifiuti e al loro riciclo, intervenendo a monte sull’eco-design dei prodotti, investendo in innovazione. «In Europa e nel mondo – continua Bruyninckx – stiamo consumando ed estraendo più risorse di quanto il nostro pianeta possa ricrearne in un dato momento. Un’economia circolare si sforza di ridurre il ‘flusso’ di nuove risorse, in particolare di quelle risorse non rinnovabili».

Secondo il direttore dell’Eea, oggi nessun paese ha centrato il duplice obiettivo «di “vivere bene” all’interno dei propri limiti naturali», ma «ci sono alcuni segnali incoraggianti. L’Unione europea ha iniziato a spezzare il legame tra crescita economica e consumo di energia e materiali». I più recenti interventi di programmazione politica, come il pacchetto per un’economia circolare proposto dalla Commissione Ue (ma anche il Collegato ambientale approvato in Italia) mostrano però un’ambizione tutt’altro che sufficiente per rimanere ai vertici dell’economia circolare a livello globale. La transizione verso lo sviluppo sostenibile è ormai avviata, ma il benessere del Vecchio continente dipenderà strettamente dalla capacità dell’Europa di saper anticipare le mosse sul piano tecnologico e culturale rispetto ad altre realtà – che siano gli Usa o la Cina – attrezzate assai meglio di noi dal punto di vista quantitativo (e delle risorse naturali). Dovremmo giocare d’anticipo, mentre stiamo retrocedendo da tutti i presidi conquistati a fatica prima dei nostri partner globali: è ora di tornare ad accelerare.