Quanto costa la gestione pubblica dell’acqua proposta dal M5S

Utilitalia: «15 miliardi di euro (una tantum) cui andrebbero aggiunti i 5 miliardi l’anno previsti per gli investimenti, con finanziamento a carico della fiscalità generale»

[23 Gennaio 2019]

L’acqua è da sempre un bene comune e sotto il controllo pubblico, ma la sua gestione deve necessariamente e progressivamente diventare più efficiente e attenta alle esigenze del territorio, come purtroppo mostra una rete idrica che ancora oggi perde in media il 41% dell’acqua che trasporta; anche le tariffe dell’acqua sono ormai decise da un’autorità pubblica e non dai gestori, così come gli standard di qualità del servizio e gli investimenti da realizzare. È invece la gestione del servizio idrico che, ad oggi, nel Paese non è sempre totalmente pubblica ma in mano a società 100% pubbliche, miste o quotate a seconda dei casi. Uno scenario che la proposta di legge Ac52 avanzata alla Camera da Federica Daga (M5S) si propone di cambiare imponendo la trasformazione di tutte le gestioni esistenti in aziende speciali o altri enti di diritto pubblico, e che a finanziare il servizio idrico sia la fiscalità generale e non più la relativa tariffa.

Secondo Utilitalia, ovvero la federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas, questo comporterebbe risvolti economici tutt’altro che banali per le casse pubbliche: le procedure per la trasformazione di tutte le gestioni esistenti avrebbero infatti «conseguenze inevitabili, come la cessazione anticipata delle concessioni legittimamente in essere e la perdita di valore economico delle aziende esistenti. Il costo per riacquistare le quote di partecipazione cedute negli anni e per ripagare lo stock di debito contratto con banche e cittadini sarebbe di 15 miliardi di euro (una tantum) cui andrebbero aggiunti i 5 miliardi l’anno previsti per gli investimenti, ma stavolta con finanziamento a carico della fiscalità generale e non più della tariffa». Ad oggi infatti gli investimenti nel settore ammontano infatti a 3,6 miliardi di euro/anno – circa il triplo rispetto al 2013, come documenta il Sole 24 Ore – ma rimane ancora un gap ad colmare per arrivare ai 5 miliardi di euro ritenuti necessari.

Non è possibile sapere se siano davvero questi i desiderata dei 27 milioni di votanti che si espressero per “l’acqua pubblica” attraverso il referendum del 2011, ma è certo che – come ricordano da Utilitalia – quello stesso referendum «non ha mai indicato la via della ripubblicizzazione forzata, ma reso l’Italia uguale agli altri Stati membri nei quali il servizio idrico integrato può essere affidato dall’ente locale, liberamente, attraverso tre forme parimenti valide: concessione a terzi, società mista pubblico privata e affidamento in house ad una propria società di cui detenga interamente il capitale pubblico. Non esiste quindi un obbligo alla pubblicizzazione del servizio, ma una libertà di scelta per l’ente locale».

Quel che è rimasto nel dibattito politico è invece soltanto la dicotomia tra “pubblico” e “privato”, di più efficace appeal elettorale, mentre a restare indietro è la necessità di assicurare a tutti i cittadini infrastrutture e servizi di qualità elevata, attraverso tariffe eque ed investimenti: elementi che non possono fare a meno di una gestione industriale del servizio idrico, indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto che viene deputato a portarlo avanti dall’autorità pubblica.