Dal Consiglio nazionale della green economy sei proposte per cambiare passo

Per l’industria europea braccata dalla Cina la via di fuga è nell’economia verde

I soli dazi commerciali non bastano: occorrono sostenibilità e investimenti per produzioni ad alto valore aggiunto

[17 Febbraio 2016]

L’Unione europea, e in particolari alcuni suoi Stati membri particolarmente ferrati in materia d’industria (Germania in primis) hanno una vera predilezione per l’apertura di ogni barriera commerciale. Non a caso, da sempre l’Unione cerca di conquistarne la caduta tramite i più svariati confronti internazionali: se domani tutti quelli già avviati avessero successo – dettaglia la stessa Commissione europea – il Pil dell’Ue guadagnerebbe il 2,2% (275 miliardi di euro), aggiungendo l’1% al tasso d’occupazione in Europa, equivalente a 2,2 milioni di nuovi posti di lavoro. Eppure, non tutti i partner commerciali sono sempre i benvenuti.

A ricordarlo sono stati i più di 5mila manifestanti dell’industria europea, che si sono riuniti a Bruxelles da 17 diversi paesi per chiedere che alla Cina non venga riconosciuto lo status di economia di mercato, una decisione che dovrà essere presa entro la fine dell’anno e che minaccia alla base la sopravvivenza di molte industrie europee, da quella dell’acciaio a quella del fotovoltaico. Appiccicando alla Cina l’etichetta di economia di mercato, sostengono con argomenti gli oppositori – sostenuti dalle stime dell’Economic policy institute, rilanciate dal Sole 24 Ore –  con l’ampliarsi del dumping da parte del gigante asiatico il Pil comunitario si ridurrebbe fino a perdere 228 miliardi di euro, lasciando a terra fino a 3,5 milioni lavoratori. Se le due valutazioni sono comparabili, significa dunque che cedendo alla Cina l’Ue perderebbe più posti di lavoro di quanti ne guadagnerebbe traghettando al successo ogni sua altra trattativa in merito di accordi commerciali internazionali.

In altre parole, non solo il gioco non vale la candela, ma è nettamente in perdita. Nonostante ciò, e nonostante sia evidente come la Cina non possa ad oggi in alcun modo definirsi “un’economia di mercato”, le pressioni geopolitiche sono incessanti, e l’Ue è ancora ben lontana dallo sciogliere le riserve nei confronti dell’ingombrante compagno di commerci.

Atteggiamento a dir poco ambivalente, che offre l’occasione per riflettere sui perversi effetti della retorica sul turbolibersimo economico, una retorica alimentata negli anni anche da quegli stati che oggi scalpitano per non essere schiacciati dalla libera mano del mercato. La Cina fa paura perché riesce a imporre sui suoi prodotti dei prezzi di mercato che spiazzano la concorrenza europea, intervenendo su due pilastri: permettendo da una parte che le proprie attività industriali proseguano seguendo assai bassi livelli di tutela sociale e ambientale, e garantendo al contempo un massiccio supporto pubblico alle imprese. In tale quadro della situazione, i dazi anti-dumping europei costituiscono una difesa commerciale imprescindibile. Sul lungo periodo, però, potranno fare ben poco. «Gli obiettivi Ue per il 2020 comprendono la riduzione di CO2 del 20%, l’innalzamento del tasso di occupazione e l’incremento del contributo dell’industria al Pil portandolo al 20%. Se l’Ue dovesse concedere il Mes (lo status di economia di mercato, ndr) alla Cina – ha dichiarato Milan Nitzschke, portavoce dell’alleanza di industriali che ha organizzato la manifestazione di piazza a Bruxelles – questi obiettivi diventerebbero obsoleti. Il Mes lascerebbe l’Europa senza difese contro  una marea di importazioni cinesi che ridurrebbero i posti di lavoro europei e danneggerebbero l’ambiente».

L’Europa è chiamata dunque a scegliere quale modello industriale seguire: pochi diritti e ancor meno tutele ambientali, o la promozione (sostenuta da investimenti pubblici) di un’industriale sostenibile e tecnologicamente evoluta? Si tratta di un bivio che non è possibile eludere, e che vede l’Italia – in quanto seconda potenza industriale del continente – in primo piano. «Se l’Italia non crea filiere industriali per le tecnologie avanzate (come i pannelli fotovoltaici) dovrà importarle peggiorando il proprio deficit commerciale», spiegava già tre anni fa sulle nostre pagine Daniela Palma, coordinatrice dell’osservatorio Enea sull’Italia nella competizione tecnologica internazionale, proprio esaminando la dinamica degli screzi commerciali tra Ue e Cina.

Sul lungo periodo, quella basata sui soli dazi è dunque una strategia comunque perdente. In compenso in Italia, che pure vanta eccellenze di green economy, nessun piano per l’industria verde – e negli ultimi anni nessun piano industriale in senso lato – ha mai visto la luce. Un paradosso che non riguarda solo la green economy in senso lato, ma anche i settori manifatturieri più tradizionali, che pure non possono evitare di innovare e divenire più sostenibili (su tutti, ora è tornato il turno dell’acciaio).

Per colmare questo gap, com’è possibile muoversi? Un buon indirizzo arriva dal Consiglio nazionale della green economy, che ha appena approvato una risoluzione chiedendo a governo e Parlamento di sostenere sei misure per cambiare passo in direzione dell’economia verde. Misure che vanno dallo sviluppare il risparmio, il riciclo e la rinnovabiltà dei materiali all’introduzione di un carbon pricing, passando per l’efficienza, il risparmio energetico e lo sviluppo di fonti energetiche nazionali rinnovabili. Ai vertici nazionali però la risoluzione non dev’essere arrivata. Nello stesso giorno in cui veniva approvata, il presidente Mattarella ha approvato la data (pubblicata ieri in Gazzetta ufficiale) del referendum sulle trivellazioni petrolifere suggerita dal governo, rinunciando all’election day con le amministrative e avvallando così uno spreco di risorse pubbliche stimato in almeno 300 milioni di euro. «Tutto – hanno commentato gli ambientalisti – per scongiurare il quorum elettorale, svilire l’istituto referendario, avvantaggiare i petrolieri».