Il nuovo rapporto di Fise Unire e Fondazione per lo sviluppo sostenibile

Paradossi nell’Italia del riciclo: importiamo rifiuti, ma non sappiamo valorizzare quelli nostrani

Carenza di impianti (soprattutto per i pericolosi) e convenienza economica spingono gli scarti italiani all’estero

[15 Dicembre 2015]

L’ultima edizione del rapporto “L’Italia del Riciclo”, promossa e realizzata da Fise Unire (l’associazione di Confindustria che rappresenta le aziende del recupero rifiuti) insieme alla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, è stata presentata oggi a Roma. Il tradizionale appuntamento con il dossier cade quest’anno in una fase assai calda per lo sviluppo della green economy: nell’ultimo fine settimana si è chiusa a Parigi la Conferenza Onu sul clima, e pochi giorni prima la Commissione europea ha presentato la nuova proposta legislativa sull’economia circolare. Due traguardi che s’intrecciano tra loro, e trovano nel riciclo un solido punto d’incontro.

«Per raggiungere gli ambiziosi obiettivi sui cambiamenti climatici appena concordati a Parigi – spiega oggi Anselmo Calò, presidente di Unire – il riciclo di materia può svolgere una funzione fondamentale dovuta al risparmio di energia nella produzione di materie prime e quindi alle emissioni di CO2 evitate. Per far questo è necessario scoraggiare lo smaltimento in discarica e migliorare la qualità dei materiali raccolti, nonché razionalizzare e semplificare il contesto normativo. Anche in considerazione  della discussione sul nuovo pacchetto sull’economia circolare, è necessario superare i punti non chiari e conflittuali fra le diverse legislazioni, in modo da agevolare il riciclo di materiali che non comportano rischi ambientali effettivi».

In particolare, nonostante numerosi analisti e le maggiori associazioni ambientaliste abbiano giudicato la proposta legislativa sull’economia circolare un passo indietro, la Commissione stima comunque che il pacchetto normativo porterà nell’Ue (al 2030) a un risparmio di 600 miliardi di euro, alla creazione di 580.000 posti di lavoro e alla riduzione delle emissioni di carbonio di 450 milioni di tonnellate all’anno.

Come si muove l’Italia del riciclo in questo contesto? «Il rapporto – sottolinea ancora Calò – evidenzia come il riciclo in Italia sia riuscito a resistere alla recessione prolungata restando competitivo», decollando verso numeri «di livello europeo, sia pure in modo non omogeneo, perché – sottolinea  Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – permangono zone di arretratezza in alcune regioni».

In sintesi, nel rapporto si fotografa un’industria del riciclo che continua a crescere nel comparto degli imballaggi – che, ricordiamo, rappresentano solo il 7% circa dei rifiuti totali –, con un avvio a riciclo pari al 66% nel 2014, in crescita del +2% rispetto all’anno precedente. Un trend che di anno in anno viene aggiornato in crescendo ormai da tempo nel rapporto, a dimostrazione delle potenzialità del settore, ma che lascia intravedere ancora molte zone d’ombra.

A partire dalle ataviche lacune in merito a un metro comune con cui contabilizzare lungo lo Stivale le performance di raccolta differenziata, e dunque di avvio a riciclo (proprio l’allora ministro Ronchi, nel 1997, ne chiedeva l’implementazione – mai arrivata – entro 6 mesi). Lacune cui anche questo rapporto non può sfuggire, presentando comunque scorci e analisi d’interesse. Come il focus dedicato, per la prima volta nella storia del documento, all’import-export di rifiuti in Italia.

Dall’analisi presentata risulta che i rifiuti urbani e speciali scambiati dall’Italia con l’estero nel 2014 ammontano a 5,9 Mt per l’import e 3,8 Mt per l’export, con entrambi i flussi in crescita rispetto agli anni precedenti. Dietro questi numeri si nasconde e accentua un paradosso ormai tipico, purtroppo, della realtà italiana.

«L’analisi simultanea dei dati di import e di export consente inoltre di evidenziare le “sovrapposizioni” esistenti tra i flussi – si legge nel report –,  con l’obiettivo di individuare tra i rifiuti esportati i potenziali “succedanei” di quelli importati». Il risultato è che almeno 450.000 t., ovvero l’8% sul totale importato (con alti costi economici e ambientali) potrebbe essere benissimo reperito tra i rifiuti italiani anziché cercato oltreconfine. Se si pensa che «il quadro emerge dai dati presentati nel 2015 da imprese ed enti tramite il Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud)», che per legge i “produttori” (al contrario dei “gestori”) con meno di 10 dipendenti – si veda nel merito la recente analisi prodotta da Ecocerved, che apre un interessante spaccato nel merito – non sono obbligati a presentare, si ha un’idea delle dimensioni complessive del fenomeno.

Tutto questo mentre l’esportazione di rifiuti risulta legata, in parte, «a deficit impiantistici soprattutto per la gestione dei pericolosi e, in parte, a una maggiore convenienza economica […] Si rafforza quindi la considerazione che la carenza a livello nazionale di impianti di gestione sia una delle ragioni che spinge imprese ed enti a spedire all’estero i propri rifiuti, soprattutto se pericolosi.

Per quanto riguarda i rifiuti pericolosi e i non pericolosi da trattamento meccanico, che in Italia vengono sostanzialmente avviati a smaltimento, si osserva come all’estero trovino invece collocazione, almeno in parte, in attività di recupero, sia di materia sia di energia». Una perdita di risorse che, sia dal punto di vista industriale sia da quello ambientale, non è più accettabile, e cui è necessario porre rimedio: l’economia circolare si alimenta di fatti, non di paradossi.