Nucleare, l’Italia ancora non sa che fare dei propri rifiuti: la Commissione Ue avvia l’infrazione

La Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare il deposito unico è pronta dal 2015, ma da allora è sempre rimasta chiusa in un cassetto

[3 Novembre 2020]

Era il 1987 quando un referendum storico sancì – seguito da un bis referendario nel 2011 – l’addio dell’Italia allo sfruttamento dell’energia nucleare. Ma da allora, nonostante le centrali nazionali siano chiuse definitivamente dal 1990, non si è mai definitivamente chiusa questa pagina. Perché la gestione dei rifiuti nucleari è assai complicata e costosa, basti pensare che a livello europeo i costi correlati sono cresciuti fino a 566 miliardi di euro.

Così trentatré anni dopo quel primo referendum, la Commissione Ue ha deciso di inviarci una lettera di costituzione in mora “per non aver adottato un programma nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi conforme ai requisiti previsti dalla direttiva sul combustibile nucleare esaurito e sui rifiuti radioattivi (direttiva 2011/70/Euratom del Consiglio)”.

E questo perché, in buona sostanza, l’Italia non ha ancora idea di come gestire 78mila metri cubi di rifiuti nucleari. I motivi sono noti, ma fa comunque specie veder passare così gli anni senza una soluzione definitiva. I rifiuti radioattivi – ricorda la Commissione Ue – “derivano dalla produzione di energia elettrica in centrali nucleari, ma anche dall’uso di materiali radioattivi per scopi non legati alla produzione di energia elettrica, tra cui scopi medici, di ricerca, industriali e agricoli. Questo significa che tutti gli Stati membri producono rifiuti radioattivi”.

La direttiva “stabilisce un quadro comunitario che impone la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi, al fine di assicurare un elevato livello di sicurezza ed evitare di imporre oneri indebiti a carico delle generazioni future. In particolare, la direttiva impone agli Stati membri di elaborare e attuare programmi nazionali per la gestione di tutto il combustibile nucleare esaurito e di tutti i rifiuti radioattivi generati nel loro territorio, dalla produzione allo smaltimento, al fine di proteggere i lavoratori e la popolazione dai pericoli derivanti dalle radiazioni ionizzanti”.

Ed è proprio questo uno dei più annosi problemi: i rifiuti di origine energetica, cioè quelli originati dalle centrali nucleari e dalle installazioni correlate al ciclo del combustibile, sono in Italia tuttora immagazzinati nei siti in cui sono stati prodotti. Va precisato però che circa il 99% del combustibile esaurito, utilizzato nelle quattro centrali nucleari nazionali dismesse, non si trova più in Italia: nel corso degli anni è stato inviato in Francia e in Gran Bretagna, dove è stato sottoposto a riprocessamento. Il punto è che come noto, entro il 2025 è previsto il rientro in Italia dei rifiuti prodotti dal riprocessamento: ciò significa che per allora dovrà essere completata l’intera realizzazione del Deposito unico nazionale – un progetto da 1,5 miliardi di euro – dove custodirli in sicurezza, ma di fatto ancora non abbiamo neanche idea di dove verrà realizzato; la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare il deposito sono stati individuati 100 possibili siti ormai dal gennaio 2015, ma da allora è sempre rimasta chiusa in un cassetto.

Gli Stati membri – ricorda infatti la nota della Commissione – “erano tenuti a recepire la direttiva entro il 23 agosto 2013 e a notificare per la prima volta alla Commissione i loro programmi nazionali entro il 23 agosto 2015”. Per questo “gli Stati membri interessati dispongono di 2 mesi per rispondere alla Commissione, trascorsi i quali, in assenza di una risposta soddisfacente, la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato”.

Insomma, l’eredità nucleare italiana è davvero molto pesante, la Sogin, la società che gestisce le operazioni di decommissioning, sicuramente sta lavorando molto, ma i costi sono esorbitanti e senza un deposito non si risolverà mai nulla.