L'intervista di greenreport.it al noto sociologo torinese

Macchine contro operai, la disoccupazione tecnologica spiegata da Luciano Gallino

Il fronte della transizione verso la sostenibilità passa per un lavoro dignitoso garantito a tutti

[5 Luglio 2013]

Nella lotta all’emergenza lavoro, un punto in particolare sembra del tutto sfuggire all’analisi. Anche dove l’economia riparte, l’occupazione non sempre la segue: vanno sparendo le attività routinarie – anche intellettuali – a favore delle macchine. Un fenomeno noto come disoccupazione tecnologica. Com’è possibile tenerlo a freno?

«Si tratta di un fenomeno che colpisce particolarmente il nostro Paese. È abbastanza evidente che anche se la domanda interna è stagnante e dall’estero non arriva una grande domanda di export, quello che sta succedendo è che le imprese italiane sostituiscono la manodopera con le nuove tecnologie, robot intelligenti, informatica e dunque automatizzazione. Dopo la Germania, che è un irraggiungibile gigante, l’Italia è stato tra il 2010 e il 2012 il maggiore acquirente europeo di robot industriali. Più del doppio di quanto non abbiano acquistato ciascuno Gran Bretagna, Francia, Spagna, per non parlare degli altri paesi. Una tendenza che ha un solo significato: anche quando la produzione si continua a fare si sostituisce la manodopera con le macchine.

Questo dovrebbe essere l’oggetto di una grande politica di transizione ordinata da un settore industriale energivoro e basato su produzioni tutto sommato tradizionali (dalle auto agli stessi computer, che sono ormai dei piccoli elettrodomestici prodotti a milioni e con grande automazione) verso settori produttivi ad alta intensità di lavoro. I settori di riferimento sono moltissimi: dai beni culturali, l’incremento dell’efficienza energetica e nell’utilizzo di materia, la ristrutturazione degli edifici (si pensi che metà delle scuole non è ancora a norma dal punto di vista della sicurezza) o il dissesto idrogeologico, che costa all’Italia circa 12-15 miliardi di euro l’anno: una somma che potrebbe essere investita per creare centinaia di migliaia di posti di lavoro su un ampia fascia di competenze professionale, che vanno dal badilante al geometra e l’architetto. Si tratta di un processo di transizione che richiederebbe però una robusta politica industriale da parte del governo, invece questi blaterano di crescita e spesso non sanno nemmeno bene di cosa stiano parlando».

Un recente studio della Bocconi trova proprio nella green economy un settore ad alta intensità di lavoro sul quale puntare. Pensa possa essere qui la risposta?

«Sì, ma fino ad un certo punto. Occorre distinguere: se, ad esempio, si tratta di utilizzare le energie rinnovabili per un’economia e una produzione meno energivora sono sicuramente d’accordo. Se invece, come è apparso evidente in molti casi, si cerca di sostituire l’energia di carbone e petrolio ma a fronte di una produzione altrettanto energivora non ci siamo, non ha nessun senso: tanto vale allora tenerci le centrali a gasolio o magari a gas importato dagli Stati Uniti, che stanno devastando il Paese con il fracking. Come per l’energia, lo stesso si può dire per l’utilizzo di materia: tutto questo farebbe parte di quella politica industriale della quale parliamo e di cui si vedono delle tracce, dei segnali interessanti ma non un grande disegno governativo che dica “da qui a dieci anni giochiamo su questo fronte tutte le nostre energie e capacità”. Credo che tutto questo sia in fondo all’agenda di questo governo, che sotto tale punto di vista trovo completamente inetto».

Già John Maynard Keynes, nel suo Prospettive economiche dei nostri nipoti è stato un precursore nell’analisi della disoccupazione tecnologica. Riconosceva il problema, ma prevedeva fosse un preludio di un futuro dove il problema economico non sarebbe stato «il problema permanente della razza umana». Crede sia una profezia sempre attuale?

«Per certi aspetti sì, ma Keynes pensava che avremmo lavorato sempre meno: 20 ore, forse 10 la settimana, in quanto la tecnologia avrebbe fatto fronte a tutti i bisogni reali. Non so se quello di lavorare sempre meno sia un’ideale interessante, perché un lavoro professionalmente qualificato, avvincente, che motiva e consente di esprimerci, è una componente fondamentale dell’identità umana. Noi non possiamo sopravvivere se non trasformiamo l’ambiente tramite il lavoro. Nessun’altro animale lo fa: noi siamo un animale sprovveduto, disarmato, che deve difendersi e ricreare il proprio ambiente per intero attraverso il lavoro. Questo è diventato anche un importante sostegno e pilastro della natura umana. Poi, certo, dobbiamo fare i conti con la realtà, che dice come l’80% delle persone faccia un lavoro da cani; ma intervenire su questo, passare a un lavoro decente, interessante e che soddisfi le esigenze della personalità umana, dovrebbe far parte della transizione di cui parlavamo, verso una società nella quale valga la pena di vivere».

Questa perdita di lavoro umano a favore delle macchine si inserisce in un filone d’analisi di cui fa parte anche quella «malattia dei costi», quella teoria passata alla storia come sindrome di Baumol. Potrebbe spiegarcela?

«È la storia del quartetto di Mozart (la metafora che William Baumol e William Bowen, a metà anni ’60, utilizzarono per spiegare la loro analisi, ndr). Se l’esecuzione di un quartetto di Mozart a fine Settecento durava diciotto minuti, lo stesso tempo è necessario oggi che siamo nel 2013, e non si può fare con un violinista di meno, o accelerando i tempi. Questo vale per molti settori: ce ne sono altri dove la tecnologia è importantissima, ma l’alta intensità di lavoro è un presupposto inevitabile: se uno si occupa di ricerca farmaceutica o di nanotecnologie è sicuro che quella è un’attività di ricerca ad alta intensità di lavoro, sebbene le macchine aiutino. La ricerca è sempre ad alta intensità di lavoro, ben oltre il quartetto di Mozart».

L’input fornito da Baumol è utilizzato come assist da un filone d’analisi che crede sia questa «malattia dei costi» il freno a mano tirato sul futuro dell’occupazione ad alta intensità di lavoro (come la sanità, l’educazione, la cura del territorio). Cosa ne pensa?

«Baumol ha sicuramente ragione nell’attaccare quella che non è solo la sindrome, ma anche la demenza dei costi. La pubblica amministrazione è un aspetto fondamentale della nostra organizzazione sociale: l’idea che tagliando lì si possa risparmiare capitale da investire altrove è semplicemente un pessimo calcolo, fatto da pessimi economisti che badano soltanto alla privatizzazione di tutto. Non siamo ancora arrivati a quella dell’aria, ma qualcuno ci sta sicuramente pensando. Credo che questa sia una strada totalmente sbagliata, come dimostra in fondo lo stesso dramma dell’austerità europea. Taglia tutto, e alla fine ci si ritrova con 26 milioni di cittadini disoccupati e 120 milioni a rischio povertà».

Quindi non è la sindrome dei costi che spinge verso un declino dei servizi pubblici?

«No, perché la produttività è sicuramente aumentata anche nei servizi pubblici. Compiere un atto amministrativo con un computer anziché con una macchina da scrivere o con una penna comporta un aumento di produttività. Ma chi attacca l’apparato pubblico non lo fa con un ragionamento sulla produttività, che rimane un paravento per dire che lo Stato deve rimanere piccolo ed entrare in settori dove il privato è più efficiente (un’assunzione del tutto menzognera) in modo da aprire spazi alla privatizzazione di tutto. Se i neoliberali attaccano nel modo feroce degli ultimi anni il cosiddetto modello sociale europeo, questo con l’efficienza non c’entra proprio niente. Tanto che quattro calcoli mostrano come, ad esempio, la sanità pubblica europea sia incomparabilmente più efficiente della sanità Usa. L’attacco ai servizi pubblici è perché quello rappresenta un budget di 3.800 miliardi di euro, e si privatizza il più possibile dell’apparato pubblico questi soldi diventano un magnifico mercato, anche per la speculazione finanziaria».

In questo contesto, quindi, ritiene sempre attuale la proposta di un’Agenzia per l’occupazione, lanciata lo scorso anno ma che – all’atto pratico – nessuna forza politica ha fatto propria, nonostante le dichiarazioni di simpatia?

«Direi di sì, anche perché non si vedono sostituti. L’idea di incentivare l’impresa è del tutto sballata, per molti motivi. Anche di fronte ad un incentivo significativo non è detto che, letta la notizia sulla Gazzetta ufficiale, il giorno dopo l’impresa assuma, mentre l’Agenzia per l’occupazione una volta istituita potrebbe iniziare ad assumere immediatamente. C’è inoltre il problema di cosa significa occupazione lorda e occupazione netta: anche con gli incentivi stanziati dal governo non c’è assolutamente niente che assicuri venga creata occupazione netta, ovvero di un saldo attivo tra nuovi occupati e coloro che lasciano il lavoro. Può essere benissimo che le imprese assumano giovani utilizzando gli sgravi fiscali, licenziando in egual misura dei cinquantenni, magari sostituendoli con delle macchine. Bisogna essere molto ingenui per pensare che pompando un miliardo di euro nell’economia si possa creare occupazione netta, cosa che invece l’Agenzia per l’occupazione compie per definizione. Se si pensa che tra il 1933 e il 1934 tre agenzie americane crearono 4 nuovi milioni di posti di lavoro (12 milioni a fine programma, nel 1938) in tre mesi, si vede come altri palliativi possano essere inadeguati».

Questo esempio a stelle e strisce ricorda come, in occasione della Seconda guerra mondiale, venne realizzata una trasformazione industriale impressionante, seppur diretta allo sforzo bellico. La produzione di auto venne addirittura vietata, perché le industrie del Paese si dedicassero all’impegno dell’esercito.

«Ai tempi la produzione Usa era al 98% bellica. Le auto si producevano, ma con altri nomi: dalle fabbriche uscivano autocarri per l’esercito. Nel 1932 la disoccupazione Usa era attorno al 25%; dopo il New Deal, nel 1938 era scesa attorno al 15%, comunque ancora molto alta. In vista della guerra, tra il 1940 e il 1941 è scesa allo 0,5%. Non è certo questo il tipo di keynesismo che ci vorrebbe adesso, ma quando si parla di difficoltà insormontabili per una transizione verso un altro tipo di economia, il passato ci ricorda alcuni esempi».