L’urbanistica come mezzo per una transizione ecologica e solidale in Italia

«Le forme dell’urbanizzazione sono uno dei fattori determinanti della sostenibilità ambientale e della resilienza urbana, poiché determinano i modi in cui si organizzano le funzionalità delle città, l’accessibilità ai servizi urbani e la capacità di trasformazione e adattamento alle diverse domande sociali e al cambiamento climatico»

[20 Marzo 2019]

In vista del XXX Congresso dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) greenreport ha contattato Silvia Viviani, presidente dell’Inu dal 2013 e oggi vicepresidente dell’associazione Tes, nata per promuovere una “transizione ecologica e solidale” nel nostro Paese.

Si è appena presentata al grande pubblico l’associazione Tes – di cui è vicepresidente –, nata per creare un network capace di promuovere una transizione ecologica e solidale dell’economia. Quali sono i temi sui quali vi concentrerete nel medio termine, e con quali strumenti d’azione?

«Partiamo dalla necessità di affrontare i profondi mutamenti climatici e sociali che stanno rivelando la fragilità delle condizioni di convivenza delle popolazioni e uno stato di pressione e consumo delle risorse primarie giunte al limite del loro sfruttamento. La mobilitazione mondiale nella giornata di sciopero per il clima del 15 marzo ha mostrato la rilevanza della questione e la sensibilità a essa riservata da tutte le generazioni, trainate da quelle più giovani, nell’intento di migliorare lo stato di  benessere e di qualità della vita. È una sfida che richiede responsabilità e progettualità. A questo ci riferiamo con “transizione ecologica e solidale”, un orizzonte di politiche e di azioni per un nuovo modello di sviluppo con impatti economici, sociali e ambientali. Per questo, i temi di cui ci occuperemo nel medio termine sono il consumo del suolo, la Strategia energetica nazionale, la fiscalità ecologica, le politiche industriali e lavoro. Gli strumenti scelti sono quelli utili a fondare una cultura diffusa di tipo ecologico e solidale: ricerca ed elaborazione, formazione e informazione. A essi sono funzionali sistemi di alleanze e dialoghi con le istituzioni».

Oltre a essere nella squadra Tes, presiede l’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) ormai da sei anni. In questo lasso di tempo come si è evoluta la situazione del Paese in termini di lotta all’abusivismo e al consumo di suolo?

«Le criticità che caratterizzano lo stato dei territori italiani dimostrano che sia per la lotta all’abusivismo sia per il contrasto al consumo di suolo non ci sono misure efficaci, e che gli strumenti disponibili sono ancora troppo diversamente utilizzati nel nostro Paese. Nel Mezzogiorno, molte espansioni sono avvenute senza pianificazione, con edilizia abusiva e, di conseguenza, prive anche delle dotazioni urbanistiche più elementari. Talvolta sono esposte a rischi rilevanti o danneggiano beni culturali e naturali. La legalità nelle trasformazioni urbane e territoriali e l’utilizzo responsabile dei suoli devono essere considerati princìpi obbligatori e ugualmente praticati in tutta Italia. Per questo motivo, l’Inu conferma la fiducia nel metodo della pianificazione, alla quale va assegnato il compito di definire fini e limiti comportamentali nell’uso delle risorse e individuare azioni di prevenzione e di adattamento, prioritarie rispetto agli interventi di mitigazione, ai fini della tutela delle risorse naturali e degli effetti benefici del loro buono stato sulla qualità della vita umana e animale.

In questo contesto, è anche necessario ribadire come siano insufficienti le politiche di incentivazione all’ecosostenibilità e risparmio energetico rivolte solo all’edilizia privata, in assenza di un rinnovo ecologico delle infrastrutture urbane. Il contenimento del consumo di suolo, inteso come il definitivo arresto del suo spreco e l’attivazione di misure e azioni per il suo corretto uso, non possono discendere da procedimenti settoriali, ma devono informare il metodo della pianificazione, alle diverse scale e nel suo rilancio come attività fondamentale del governo del territorio. Occorre introdurre nella legislazione relativa alla pianificazione territoriale e urbanistica elementi utili a far assumere ai piani, da innovare, connotati progettuali capaci di cure di resilienza per la città e il territorio, abbandonando i modelli delle trasformazioni urbanistiche caratterizzate da consumo di suolo che comprendono ampi margini di sfruttamento di rendite e surplus derivanti da un mercato urbano pre-crisi. Un modello erroneamente ritenuto in continua espansione della fine degli anni ‘90 e dei primi anni 2000».

Tra le grandi criticità italiane giganteggia il dissesto idrogeologico, che secondo il Cnr nel 2018 ha portato i danni più gravi registrati da cinque anni. Quali sono gli interventi prioritari a contrasto del fenomeno che andrebbero concretizzati?

«Vi sono condizioni gravi ed emergenziali, per le quali la riduzione del rischio al quale sono esposte le popolazioni richiedono un programma di opere sostenuto da fattibilità, sia in termini di risorse certe che di progettazione, realizzazione e gestione efficienti. Serve, poi, un vero e proprio “cambio di paradigma“, per la definizione di un programma nazionale di manutenzione e di prevenzione e per una cultura diversa, che chiuda la stagione delle emergenze e porti le politiche e i progetti di cura del territorio nelle pratiche ordinarie di buon governo.

È un dato certo che l’urbanizzazione diffusa e dispersa ha prodotto perdita di paesaggi e suoli e dei relativi servizi eco-sistemici, si è mostrata energivora, ha riguardato zone a rischio idrogeologico, sismico, vulcanico. Indubbiamente, le forme dell’urbanizzazione sono uno dei fattori determinanti della sostenibilità ambientale e della resilienza urbana, poiché determinano i modi in cui si organizzano le funzionalità delle città, l’accessibilità ai servizi urbani e la capacità di trasformazione e adattamento alle diverse domande sociali e al cambiamento climatico. Di nuovo, si conferma la necessità di affrontare la questione del rischio nella pianificazione urbanistica e territoriale tramite una valutazione secondo molteplici criteri integrati tra loro.

Il contrasto alle condizioni di rischio del nostro Paese – in primis quello sismico, geomorfologico e idrogeologico – richiede l’adozione di politiche, piani e progetti fortemente connotati da un approccio adattivo (caso per caso), multiscalare (dalla scala sovracomunale a quella micro locale), multidimensionale (caratterizzati cioè da una elevata capacità di integrazione di saperi, competenze e soggetti). La scorciatoia delle soluzioni settoriali, affidate a singole discipline specialistiche, ha sempre prodotto un impoverimento delle azioni e una riduzione complessiva della loro efficacia. In questo senso la centralità dell’urbanistica come campo interpretativo e progettuale di convergenza e integrazione tecnico-decisionale costituisce un riferimento essenziale e un terreno di lavoro ineludibile.

Ciò peraltro richiede un mutamento sostanziale della disciplina per meglio accogliere le istanze che le condizioni di rischio pongono. Devono anche messe in opera modalità interpretative, metodi e strumenti aggiornati e omogenei a livello nazionale, relativi alla lettura integrata delle condizioni di rischio sismico, geomorfologico e idrogeologico. In questo scenario, è necessario procedere con progetti territoriali operativi e dotati di risorse, che comprendono le azioni di prevenzione e gestione dei rischi, le reti ecologiche e le infrastrutture cosiddette blu e verdi, che riconciliano ambienti urbani e condizioni di naturalità; promuovere pratiche partecipative integrate ai processi di pianificazione, che incrementino la consapevolezza della cittadinanza e dei soggetti economici, operanti sui territori; assegnare valore sociale ed economico all’efficienza ambientale e agli interventi di prevenzione del rischio. Inoltre, è importante dare priorità alla rigenerazione urbana generalizzata, che comprende le strategie dell’adattamento climatico, come contenuto centrale e caratteristico della nuova urbanistica».

Contro il dissesto idrogeologico il Governo ha presentato nei giorni scorsi il nuovo piano “ProteggItalia”, annunciando investimenti per 10,8 miliardi di euro nel triennio 2019-2021. Pensa che ci siano i presupposti per cui queste risorse si traducano effettivamente in cantieri?

«Uno dei limiti più evidenti per la fattibilità degli interventi risiede nella frammentazione e nella complessità delle competenze e delle procedure. Bisogna operare in termini di concreta semplificazione procedurale e contrastare la farraginosità dei sistemi decisionali che, nel nostro Paese, vedono un accavallarsi di compiti, competenze, piani e programmi, procedimenti, sempre più frammentati tra soggetti plurimi. Un piano nazionale con il quale si intende investire sulla messa in sicurezza e sulla prevenzione ha bisogno di essere accompagnato da maggiore efficienza della filiera pubblica, dall’armonizzazione delle conoscenze e delle esperienze di gestione dei rischi in capo a soggetti diversi;  dalla costruzione di banche dati certe e aggiornabili, condivise fra tutti i soggetti competenti e accessibili di parte dei soggetti economici e della popolazione, che portino a “carte” della vulnerabilità degli ambienti urbani e dei territori stabili e utili per valutare le situazioni prima e dopo l’evento, e con riguardo a ipotesi alternative di ricostruzione e sviluppo formulate dalla comunità locale, in modo da progettare riducendo rischi esistenti e futuri e condividendo i margini di incertezza e le responsabilità.

Occorre anche investire nella costruzione della consapevolezza e del consenso delle popolazioni sulla definizione del livello di rischio ritenuto accettabile. In altri termini, non basta un piano di opere, occorre portare la cultura della prevenzione nell’ordinarietà, supportata da criteri per valutare ex ante e in itinere gli effetti sul rischio di tutte le azioni di governo del territorio, con riferimento alle varie politiche (urbanistiche, edilizie, agricole, energetiche, infrastrutturali) e ai diversi contesti (area vasta, territori rurali, morfologie, siti specifici, luoghi urbani, aggregati edilizi), ove si determinano le differenze degli impatti. Si tratta, in altri termini, di individuare strumenti culturali e normativi, di sostegno alla pianificazione degli insediamenti esistenti, dello sviluppo di attività produttive e dei servizi contestualizzata, basata tanto sulla conservazione quanto sulla riprogettazione, nel rispetto delle morfologie, delle vulnerabilità idrogeologiche, idrauliche e sismiche, dei valori architettonici e paesaggistici, per soddisfare esigenze di prevenzione ma anche di organizzazione della sicurezza e di ripristino degli stati di convivenza sociale, di erogazione dei servizi, di tutela o rifondazione delle componenti percettive, culturali e simboliche dei luoghi di vita delle popolazioni».

Dal 3 al 6 aprile si terrà il XXX Congresso dell’Inu, un’importante occasione per mettere a fuoco criticità e soprattutto possibilità legate a una corretta gestione del territorio: quali saranno gli elementi centrali presi in esame?

«Vogliamo guardare alle difficoltà del momento nel quale viviamo con intenti di miglioramento e approcci progettuali. La consapevolezza delle condizioni ambientali e sociali è uno sprone per la ricerca delle soluzioni utili al miglioramento delle diverse forme urbane nelle quali viviamo. Non si può prescindere dalla qualità degli ambienti urbani e territoriali in cui collocare politiche attive. La dispersione insediativa e la ricerca di condizioni di vita e di lavoro soddisfacenti, un comportamento individuale sempre più autonomo nell’organizzare i propri spazi e rappresentare la città, la crescita delle diverse forme di condivisione di conoscenze e servizi, fino alla produzione di nuove economie legate allo scambio sostenuto dalla tecnologia avanzata, che contrasta ogni criticità correlata alla fisicità dei luoghi, configurano una trama reticolare, alla quale non corrispondono le geografie amministrative e neanche gli strumenti di pianificazione disponibili. Le une e gli altri, peraltro, appartengono a un tempo, a un’organizzazione sociale e politica, a forme e modalità insediative che sono alle nostre spalle.

Queste condizioni si riverberano nel governo del territorio, sul quale pesa l’assenza di politiche nazionali e della riforma urbanistica nazionale, in grado di guidare l’azione pubblica, pur nell’esercizio a ogni livello di una propria definita competenza, coerentemente nei diversi contesti territoriali e nella interazione tra locale e nazionale. Affrontare il governo del territorio e l’urbanistica, dunque, comporta farsi carico di aspetti che riguardano cooperazione, democrazia, partecipazione. Il XXX Congresso dell’Inu, pertanto, ha prima di tutto un carattere politico e culturale, necessario per dare sostegno a proposte specifiche e operative. Riteniamo che il progetto della trasformazione fisica degli ambienti urbani e dei territori, nella chiave della rigenerazione e dell’adattamento, con i tempi dell’attesa quando serve e dell’intervento subitaneo quando indispensabile, con gli orizzonti delle città in divenire e delle popolazioni in movimento, possa contribuire a un nuovo modello di sviluppo economico e rispondere alla domanda di giustizia sociale.

Il Congresso si intitola “Governare la frammentazione”, un titolo che vuol essere portatore di intenti positivi, impegno e responsabilità. Esiste una frammentazione della fonte normativa (l’urbanistica spunta nei testi legislativi più disparati), disciplinare (l’urbanistica la fanno più soggetti e con mezzi e strumenti variegati), lessicale (l’urbanistica è un universo, a volte contradditorio, di definizioni). Esistono frammentazioni della cultura, della produzione e della trasmissione di conoscenza.  Sono frammentate le competenze. La possibilità di governare la frammentazione si pone nel nuovo campo della transizione, un processo di cambiamento stabile, per pratiche democratiche responsabili, trasparenti, competenti. Anche in urbanistica. Le questioni più urgenti da affrontare sono quelle ambientali ed ecologiche, quelle della povertà urbana, da contrastare con il contributo che la rigenerazione urbana può dare all’integrazione sociale e all’accessibilità alla casa e ai servizi essenziali, quelle della mobilità delle popolazioni, con soluzioni coordinate e l’investimento nel trasporto pubblico, quelle dei diritti di cittadinanza, che includono la dotazione di spazi pubblici, privi di barriere materiali e immateriali. Per non procedere tramite esperimenti isolati, per cumulare e patrimonializzare i risultati, per definire programmi culturali e formativi, per individuare alleanze politiche, per sostenere l’innovazione di un modello industriale che assuma le questioni ambientali e sociali come valori nei propri progetti economici, per modificare gli strumenti operativi, alla base di un governo della frammentazione, prospettabile anche se in larga parte ignoto, c’è bisogno di un patto per l’urbanistica italiana. Esso non è una mera negoziazione, né un esercizio puramente tecnico, ma un impegno inderogabile, una scelta politica e culturale, un palinsesto per organizzare la tensione verso l’ordine che mitiga le disuguaglianze».