La rivoluzione che abbiamo di fronte analizzata dal presidente Fondazione sviluppo sostenibile

Le sfide della transizione ecologica spiegate da Edo Ronchi

«Il Pnrr soffre della mancanza di un nuovo quadro aggiornato di riferimento nazionale: le misure che contiene sono insufficienti per i nuovi target europei e richiederanno significative integrazioni»

[21 Maggio 2021]

Traguardare un benessere sostenibile, certo più sobrio, ma di migliore qualità, più esteso e inclusivo: è questa la promessa della transizione ecologica, il cui perimetro va ben oltre le sole tematiche ambientali fino ad abbracciare una completa rivoluzione del sistema socio-economico in cui siamo immersi.

«Il modello economico lineare, estrattivo e ad alto consumo di risorse e di energia, non è più sostenibile», spiega Edo Ronchi, forse il miglior ministro dell’Ambiente che la Repubblica ricordi e oggi alla guida della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Per Edizioni Piemme ha appena pubblicato il volume Le sfide della transizione ecologica, che esplora a fondo criticità e speranze della ripresa post-Covid.

«Un segnale importante arriva dall’Europa – argomenta nel merito Ronchi (nella foto, ndr) – il Green deal con il Next generation Eu segna l’avvio della più vasta conversione ecologica mai concepita, che potrebbe cambiare a fondo il capitalismo europeo. L’esito di questa sfida non è garantito. È comunque un’occasione storica dalle grandi potenzialità».

Quello della transizione ecologica è il nuovo leitmotiv dello sviluppo sostenibile, maturato in piena pandemia e con un nuovo ministero ad hoc. Crede che dopo anni di tentennamenti le condizioni eccezionali che stiamo vivendo stiano creando le condizioni politiche e culturali per il cambiamento?

«A me pare che il cambiamento in direzione green sia in corso, ma che proceda ancora troppo lentamente e non ancora con la profondità necessaria. Purtroppo la crisi climatica sta correndo e il tempo a disposizione per evitare una sua precipitazione catastrofica è ormai breve: dobbiamo generare un taglio di emissioni di gas serra consistente entro il prossimo decennio per tenere aperta la strada per la neutralità climatica al 2050. La buona notizia è che abbiamo ormai a disposizione tecnologie, capacità e conoscenze per vincere la sfida climatica e trasformarla in occasione di nuovo sviluppo, maggiore occupazione e benessere di migliore qualità. Il Green deal europeo è una concreta possibilità anche se non è scontato, richiede capacità adeguate, consapevolezza della portata e della priorità della sfida climatica e determinazione politica conseguente».

Le associazioni ambientaliste Greenpeace, Kyoto club, Legambiente, T&E e Wwf hanno espresso una posizione comune sul Pnrr del Governo Draghi e la sua transizione ecologica: «Non è un piano significativo per il clima». Per contrastare la crisi climatica era necessario – e possibile – fare di più?

«Il Pnrr è stato elaborato a cavallo dell’approvazione a livello europeo dei nuovi target del 55% al 2030 e della neutralità climatica al 2050, mentre si rinegozia il nuovo sistema europeo dell’Ets, in attesa, poi, della ripartizione fra i Paesi europei delle riduzioni per i settori non-Ets, avendo quindi ancora vigente il vecchio Pniec, ormai superato dai nuovi target europei. Il Pnrr soffre della mancanza di un nuovo quadro aggiornato di riferimento nazionale. Le misure che contiene sono insufficienti per i nuovi target europei e richiederanno significative integrazioni. È certamente necessario fare di più, ma soprattutto occorre definire il nuovo quadro complessivo delle politiche energetiche e della transizione alla neutralità climatica».

Desta particolare stupore – tanto da sollecitare un intervento dell’Unione geotermica italiana presso la Commissione Ue – l’ennesima esclusione della geotermia dalle fonti energetiche esplicitamente supportate dal Pnrr, nonostante la solida tradizione industriale maturata dall’Italia nell’ultimo secolo. Crede che questa fonte rinnovabile possa ancora esercitare un ruolo importante nella transizione ecologica del Paese?

«La transizione alla neutralità climatica e un obiettivo avanzato, almeno al 55% per l’Italia, di taglio delle emissioni al 2030, richiedono di utilizzare tutte le fonti rinnovabili disponibili, nessuna esclusa, geotermia compresa. Il Pnrr non è un piano energetico verso la neutralità climatica per quanto osservavo prima».

Anche sul fronte dell’economia circolare il Pnrr sembra ampiamente deficitario, concentrando la già scarsa attenzione sulla gestione di raccolte differenziate e rifiuti urbani, tralasciando la ben più ampia partita degli speciali e soprattutto tutto ciò che sta a monte in termini di ecodesign e gestione delle risorse naturali. Su questi fronti quali ritiene siano gli obiettivi da traguardare per la transizione ecologica italiana?

«Il Pnrr prevede di definire una strategia nazionale per l’economia circolare. Se questa strategia fosse stata definita prima sarebbero state, a mio avviso, ovvie due scelte: orientare esplicitamente le risorse notevoli di “Transizione 4.0“e quelle consistenti dedicate alla ricerca e innovazione per le imprese, previste da Pnrr, prioritariamente verso la transizione ad un’economia circolare. Queste due scelte, che non ci sono nel Pnrr, avrebbero qualificato la ripresa economica verso la circolarità che è essenziale non solo per la qualità ecologica , ma per la competitività e la resilienza di un’economia».

Per dare forma alla transizione ecologica serve attenzione anche alle trasformazioni sociali necessarie per supportare il cambiamento ed evitare che con i nuovi cantieri non si inaugurino guerre e contestazioni sui territori. Eppure le sindromi Nimby e soprattutto Nimto contro gli impianti per l’economia circolare o le rinnovabili non fanno che moltiplicarsi: come si spiegano, e soprattutto come si superano?

«Conosco impianti di riciclo dei rifiuti, impianti solari e eolici che non hanno avuto alcun conflitto con i rispettivi territori. A me risulta che siano anche numerosi. Non generalizzerei quindi la resistenza delle popolazioni locali. Spesso le ragioni per le quali non si fanno impianti sono altre: procedure di autorizzazione troppo lunghe che non si concludono, decreti End of waste che si attendono per anni, opposizioni delle amministrazioni locali e di una o più delle numerose autorità chiamate a dare i loro pareri nei procedimenti di autorizzazione. Ci sono anche i casi di opposizioni di parte delle popolazioni locali. Che fare in quei casi? Intanto sostenere buoni progetti, per impianti utili e ben fatti. Quindi gestire un confronto leale e corretto con queste popolazioni: ascoltare le obiezioni, discuterle, se ci sono buone ragioni, accoglierle senza arroganza. Poi, se si conferma la scelta dopo averla valutata, va portata avanti, anche se non tutti la condividono».