Le bioplastiche possono davvero risolvere il problema dei rifiuti marini?

La risposta è no, confermano dalla multinazionale di settore Novamont. Ma in alcuni casi possono aiutare

[5 Dicembre 2017]

Dall’oceano profondo alle nostre spiagge, circa l’80% di tutti i rifiuti marini oggi è costituito da frammenti di plastica o meglio di plastiche – visto l’ampio ventaglio di materiali racchiuso in un’unica parola. Come confermano le indagini condotte da Legambiente e portate dall’associazione ambientalista all’attenzione dell’Onu, l’Italia non sfugge certo al problema: qui le principali cause sono «cattiva gestione dei rifiuti urbani (49%), pesca e acquacoltura (14%) e mancata depurazione (7%)».

Posto che per risolvere davvero il problema dei rifiuti marini è necessario incidere sulle suddette cause, non facili da aggredire, da anni cresce il numero di quanti propongono di aggirare il problema sostituendo progressivamente le plastiche di origine fossile con bioplastiche in grado di degradarsi più rapidamente nell’ambiente; dove non arriva la civiltà umana ci pensi la tecnologia, insomma.

Anche le bioplastiche però, naturalmente, pur presentando numerosi e importanti aspetti positivi – in primis, la produzione slegata da una risorsa inquinante e finita come quella petrolifera – non sono una panacea. Nella fattispecie, uno studio Unep risalente a due anni fa spiegava come da una parte «etichettare un prodotto come biodegradabile può essere visto come una soluzione tecnica che rimuove la responsabilità dell’individuo», favorendo indirettamente la sua propensione a inquinare, e dall’altra che nell’ambiente marino spesso non sussistono le condizioni per la completa biodegradazione di queste bioplastiche.

Ma anche le bioplastiche non sono tutte uguali, e oggi l’Unep – ovvero il Programma Onu per l’ambiente – è tornato ad aggiornare la propria posizione in materia ospitando all’interno della propria assemblea in corso a Nairobi l’intervento di Christophe De Boissoudy, responsabile di Novamont France (il segmento francese della multinazionale italiana Novamont, leader globale nel settore delle bioplastiche).

La misura fondamentale per combattere l’inquinamento marino da plastica – ha confermato De Boissoudy – sta nella «corretta gestione dei rifiuti a terra», mentre «l’idea di risolvere il problema della dispersione incontrollata delle plastiche con la sostituzione con plastiche biodegradabili è infondata». In alcuni casi però può sicuramente aiutare.

Test di laboratorio hanno confermato che l’utilizzo delle plastiche biodegradabili per applicazioni dove il rilascio ambientale è probabile o inevitabile (per esempio l’allevamento delle cozze) si rivela molto promettente per combattere il marine litter: attraverso tali test, supervisionati dall’Istituto italiano dei plastici (Iip) e verificate da Certiquality nell’ambito del Programma pilota della Commissione europea “Environmental technology verification” (Etv),  campioni di Mater-bi prodotti da Novamont sono stati esposti a sedimenti marini prelevati dalla zona litoranea, habitat in cui finiscono molti rifiuti plastici, e la biodegradazione è stata seguita monitorando la metabolizzazione effettuata dai batteri che “digeriscono” la bioplastica. Alti livelli di biodegradazione sono stati raggiunti in tempi relativamente brevi (meno di 1 anno), suggerendo così che il Mater-bi può  essere adatto alla realizzazione di oggetti in plastica con alto rischio di dispersione in mare (ad esempio, attrezzi da pesca). In particolare, la biodegradazione dei materiali sottoposti a prova è stata superiore al 90% assoluto o relativo ad un materiale di riferimento, come ad esempio la cellulosa: dunque, naturalmente quando i prodotti in Mater-bi raggiungono il mare (dai fiumi, dalla terra ferma, dalle imbarcazioni) non “scompaiono”, tuttavia il rischio ambientale causato da un prodotto rilasciato in mare viene diminuito da una biodegradazione veloce che riduce il tempo di permanenza del prodotto introdotto nell’ambiente.

Questi risultati di laboratorio sono stati confermati anche dall’esperimento sul Mater-bi condotto presso l’isola d’Elba dai ricercatori Nora-Charlotte Pauli, Jana S. Petermann, Christian Lott e Miriam Weber, il cui esito è stato pubblicato in Royal society-open science: «L’esperimento – osservano gli autori – ha confermato che in ambiente marino i polimeri  biodegradabili come il Mater-bi possono disintegrarsi ad una velocità più elevata dei polimeri in plastica convenzionale. Un risultato da tenere in considerazione nello sviluppo di nuovi  materiali, nelle verifiche dei rischi ambientali e nelle strategie di gestione dei rifiuti».

L. A.