Istat, sale il Pil e cala la disoccupazione. Ma sul lavoro c’è poco da festeggiare

Multinazionali e aziende di tutta Europa che occupano 1,5 milioni di dipendenti si sono unite per chiedere un’Ue a zero emissioni nette entro il 2050. È questa la nuova strada per lo sviluppo, ma il “Governo del cambiamento” non sembra essersene accorto

[30 Aprile 2019]

Domani è la festa del lavoro, e per il vicepremier Luigi Di Maio «potremo festeggiare con qualche dato positivo: l’Istat ci dice che la disoccupazione scende, che siamo fuori dalla recessione, dati importanti che ci fanno affrontare il primo maggio con elementi incoraggianti». Nel dettaglio, con la stima preliminare del Pil l’Istat informa oggi che il primo trimestre 2019 si è chiuso a +0,2% rispetto ai tre mesi precedenti, e questo fa uscire il Paese dalla recessione tecnica in cui era caduto a fine 2018; riguardo ai dati sul lavoro, invece, ancora l’Istat comunica che a marzo il tasso di disoccupazione è sceso al 10,2%, con l’aumento dell’occupazione che per una volta si concentra tra i minori di 34 anni (+69 mila unità).

Si tratta di timido ma positivo miglioramento, anche se per festeggiare è decisamente presto: basta allargare di un poco il campo d’osservazione. A marzo 2019 (ultimo dato disponibile) l’Istat conta gli occupati in 23.291.000 unità, ovvero 24mila in meno rispetto all’insediamento del Governo Conte (giugno 2018); come mostrano i dati Eurostat diffusi ieri, l’Italia ha la terza peggiore performance in termini di disoccupazione di tutta l’Ue, dopo Grecia e Spagna; infine, essere usciti dalla recessione tecnica con un +0,2% non sembra un gran pregio da vantare da parte del Governo in carica, dato che prima di subirla era dal II trimestre del 2014 che l’andamento del Pil italiano vedeva solo timidissimi, diseguali ma ininterrotti progressi, senza nessun segno meno.

Al di là dei dati altalenanti su Pil e occupazione, la realtà è che da anni ormai l’Italia è in coda alle performance economiche degli Stati europei e anche il “Governo del cambiamento” rimane molto distante dal trovare un adeguato percorso di sviluppo: da una parte nel primo trimestre del 2019 il Pil nazionale ha segnato un +0,2% rispetto ai tre mesi precedenti e +0,1% su base annua, ma ancora siamo ancor a -4,9% rispetto a inizio 2008; dall’altra, come messo oggi in evidenza su La Repubblica, “nel decennio della grande e doppia crisi, l’Italia ha perso e recuperato un milione di posti. Ma di fronte a un milione di occupati a tempo pieno che mancano se ne guadagnano altrettanti a tempo parziale. Mancano 1,8 milioni di ore lavorate rispetto al 2008. I part-time involontari sono schizzati del 131%, da un milione e 195 mila a 2 milioni e 757 mila. I sottoccupati dell’88%, da 356 mila a 668 mila”. E a rimetterci sono soprattutto i giovani e giovani adulti: “Il tasso di occupazione nella fascia 25- 34 anni dal 2007 in poi è crollato dal 70 al 62%”.

Per recuperare il terreno perduto ed inaugurare un vero “cambiamento” non basta trastullarsi con un +0,2% del Pil, ma urge inaugurare un nuovo e più sostenibile percorso di sviluppo. Secondo la Fondazione per lo sviluppo sostenibile l’Italia può ambire a creare 800mila posti di lavoro entro il 2025 perseguendo 5 importanti obiettivi ambientali, ma per raggiungere il traguardo occorre una regia pubblica coerente. E paradossalmente su questo fronte oggi sono le imprese a pungolare l’intervento della mano pubblica, e non viceversa.

Alla vigilia del vertice sul futuro dell’Europa (che si terrà a Sibiu il 9 maggio), gli amministratori delegati di oltre 50 imprese – tra cui giganti come Unilever, Ikea e Dsm – investitori e coalizioni chiedono all’Ue di approvare una strategia di decarbonizzazione a lungo termine per raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, ovvero in linea con quanto proposto dalla Commissione Ue lo scorso novembre; al confronto, il Piano nazionale energia e clima avanzato dal Governo italiano neanche arriva a considerare l’orizzonte 2050, si ferma al 2030.

Come si legge a chiare lettere nella lettera allegata, i firmatari dell’appello sono sia multinazionali che aziende operanti al livello nazionale e coprono i più svariati settori industriali, rappresentando in totale oltre 1,5 milioni di dipendenti provenienti da tutta Europa. «Gli impatti dei cambiamenti climatici – osservano – stanno già influenzando i nostri profitti. I prossimi cinque anni saranno fondamentali per garantire che entro il 2050 sia stabilita in Europa la strada giusta per ottenere emissioni nette pari allo zero. Essa garantirà all’Europa un vantaggio competitivo nell’economia globale pulita che sta emergendo». Ecco dunque perché i cambiamenti climatici dovrebbero essere una questione centrale sia per il vertice di Sibiu che durante la campagna per le elezioni europee del 23-26 maggio, in quanto tutti i settori della società – imprese, investitori, giovani, città e società civile – stanno sempre più chiedendo un’azione più incisiva a favore del clima, che se ben governata potrà portare anche molti nuovi posti di lavoro. Ma il “Governo del cambiamento” non sembra essersene accorto.