Bratti: «Importiamo materiali necessari all'industria italiana ma esportiamo rifiuti che non abbiamo modo di trattare adeguatamente con impianti»

Ispra, in Italia la produzione di rifiuti speciali continua a crescere più del Pil

Anche l’economia circolare produce inevitabilmente scarti: 35,7 milioni di tonnellate l’anno arrivano da attività di trattamento rifiuti e risanamento, che non vogliamo però gestire adeguatamente

[18 Luglio 2019]

Quando il dibattito pubblico si concentra sui rifiuti in genere l’attenzione è tutta per la fetta più immediatamente percepibile perché proviene essenzialmente dalle nostre case, gli urbani, che secondo l’Ispra nell’ultimo anno censito (2017) ammontano a 29,6 milioni di tonnellate; sempre l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale, con il report pubblicato oggi, ci ricorda però che l’altra faccia della luna è ben più grande. I rifiuti speciali prodotti dall’Italia nel 2017 sono 138,9 milioni di tonnellate – compresi tra l’altro i quantitativi di rifiuti speciali provenienti dal trattamento dei rifiuti urbani, pari a circa 10,9 milioni di tonnellate –, suddivisi tra 129.226.731 tonnellate di non pericolosi e 9.669.476 tonnellate di pericolosi.

Dato che a proposito di rifiuti speciali – per dirla con l’ex presidente dell’Ispra Bernardo de Bernardinis – la «certezza dell’informazione nel nostro Paese è un’utopia», questi numeri sono in larga parte di stime, che riguardano il 43,6% della quantità complessiva dei rifiuti speciali come sottolinea l’Ispra, ma si tratta comunque di dati preziosi in quanto i più precisi a nostra disposizione.

Innanzitutto mostrano che il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti rimane disatteso: «Tra il 2016 e il 2017 si rileva un aumento nella produzione totale di rifiuti speciali, pari al 2,9%, corrispondente a circa 4 milioni di tonnellate». Si tratta un incremento quasi doppio rispetto a quello conseguito dal Pil nello stesso periodo (+1,6%), e allargando il campo d’osservazione il risultato non cambia, dato che nell’intero periodo 2010-2017 la variazione del rapporto tra produzione di rifiuti speciali non pericolosi per unità di Pil è positiva.

Da dove arrivano tutti questi rifiuti speciali? In primo luogo dal settore delle costruzioni e demolizioni (41,3% del totale), cui seguono subito dopo le attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento (25,7%, pari a 35,7 milioni di tonnellate), a testimonianza di come anche trattare rifiuti produce – come ogni altro processo industriale – rifiuti, che dovranno poi essere gestiti; sul terzo posto del podio ci sono infine le attività manifatturiere (21,5%).

Complessivamente, la gestione dei rifiuti speciali prodotti in Italia da una parte mostra aspetti virtuosi –  avanza il recupero di materia e diminuisce la discarica –  ma dall’altra resta una strutturale carenza d’impianti per chiudere davvero il cerchio dell’economia circolare.

Ne dettaglio, il recupero di materia riguarda il 67,4% (99,1 milioni di tonnellate) dei rifiuti speciali, lo smaltimento in discarica l’8,2% (12 milioni di tonnellate) e le altre operazioni di smaltimento lo 10,9% (16 milioni di tonnellate); appaiono residuali, con l’1,4% e con lo 0,9%, le quantità avviate al coincenerimento (2 milioni di tonnellate) e all’incenerimento (1,2 milioni di tonnellate).

Complessivamente nel 2017 l’Italia segna un +7,7% delle quantità avviate a recupero di materia ed una diminuzione dell’8,4% di quelle destinate allo smaltimento, ma esporta circa 3,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali; è vero anche che ne importiamo il doppio (6,6 milioni di tonnellate), ma si tratta essenzialmente di materie prime seconde necessarie alla nostra industria. Circa 5 milioni di tonnellate di import sono infatti rifiuti metallici destinati principalmente alle acciaierie localizzate in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia.

«Importiamo materiali necessari all’industria italiana – sintetizza il direttore Ispra Alessandro Bratti – ma esportiamo rifiuti che non abbiamo modo di trattare adeguatamente con impianti». E si tratta soprattutto, paradossalmente, di scarti provenienti dall’economia circolare che ci ostiniamo a non vedere inseguendo la retorica rifiuti zero: i rifiuti esportati sono costituiti infatti per il 50% da “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti, impianti di trattamento delle acque reflue fuori sito nonché dalla potabilizzazione dell’acqua e dalla sua preparazione per uso industriale”. Nel dettaglio, il 60,7% dei rifiuti pericolosi esportati, sono “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti”, 594 mila tonnellate, e anche il 45,3% del totale dei rifiuti non pericolosi, pari a circa 940 mila tonnellate, è costituito da “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti”. Si tratta di rifiuti che in larga parte finiscono in Germania, a caro prezzo.

Del resto è per la gestione di tutti i rifiuti speciali che si rileva una profonda asimmetria nella dislocazione degli impianti sul territorio nazionale: la maggiore concentrazione è al Nord – e in particolare in Lombardia (2.176), Piemonte (1.137) e in Veneto (1.126) –, mentre nel resto del Paese gli impianti sono molti meno: la presenza più alta si registra tra le regioni del Centro la Toscana (comunque ferma a 837) e tra quelle del Sud la Campania (730).

Non a caso si stima che nel solo 2016 i rifiuti italiani – urbani e speciali – abbiano percorso complessivamente 1,2 miliardi di km su territorio nazionale in cerca di impianti, il che equivale a percorrere circa 175.000 volte l’intera rete autostradale italiana. «Se vogliamo risolvere il problema della gestione rifiuti e della legalità bisogna sanare il gap tra domanda e offerta facendo impianti», osserva il presidente di Assoambiente Chicco Testa, mentre dal fronte normativo continuano a non arrivare le risposte necessarie per sbloccare l’economia circolare: «È fondamentale lavorare su semplificazione capace di tutelare ambiente, salute e impresa – sottolinea il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani – La soluzione trovata nella L55/2019 sull’End of waste ci lascia perplessi. Serve lavoro di condivisione prima di dare risposte necessarie».

Nel mentre in assenza degli impianti industriali necessari per gestire i nostri rifiuti peggiora sia il bilancio ambientale si quello economico (e occupazionale) dell’Italia, mentre nel mentre altri Paesi guadagnano a nostre spese. Un caso scuola è da sempre l’amianto, messo al bando da 27 anni ma ancora presente sul territorio in 32-40 milioni di tonnellate da bonificare e smaltire; ma senza gli impianti di smaltimento, appunto, le bonifiche non si fanno. Infatti i rifiuti contenenti amianto prodotti in Italia nel 2017 sono pari a 327 mila tonnellate, con una diminuzione rispetto al 2016 di circa 25 mila tonnellate (-7%), e non è una buona notizia: l’andamento della produzione nel periodo 2007 – 2017, osserva l’Ispra, è collegata allo smantellamento dei manufatti e alle bonifiche dei siti contaminati dalla presenza dei rifiuti di amianto. In compenso, anche il poco amianto bonificato prende in larga parte la via dell’estero: la Germania è il Paese che riceve (profumatamente pagata) la quasi totalità del nostro export d’amianto, circa 100 mila tonnellate smaltite in miniere dismesse e in particolare in quella salina di Stetten, autorizzata a ricevere 250 tipologie di rifiuti utilizzate per la messa in sicurezza delle cavità che si generano a seguito dell’attività estrattiva.

Dunque benefici ambientali ed economici per i tedeschi alimentati dai rifiuti italiani, che rinunciamo a gestire in patria – lasciando cadere gli sbandierati principi di sostenibilità e prossimità – a favore di un ambientalismo di facciata alimentato da sempre più numerosi comitati locali e soprattutto dell’insipienza politica, primo motore delle sindromi Nimby e Nimto che bloccano lo sviluppo sostenibile italiano.