Investimenti pubblici in via d’estinzione, senza un’idea di sviluppo semplificare non basta

Morassut: «La norma sul ‘condono’ surrettizio inserita nel dl Semplificazioni va stralciata, è una norma ammazza suolo. È tempo di Green new deal, non di condoni»

[30 Giugno 2020]

Se avessimo imparato qualcosa dalla grande recessione di dieci anni fa, che ancora non ci ha lasciato – dopo che il Pil italiano si è contratto del 9%, dal 2013 a oggi ha recuperato meno della metà – è che l’arma più potente a disposizione per contrastare la crisi economica da Covid-19 sta negli investimenti pubblici.

Arriverà il giorno del moltiplicatore (keynesiano), titolava nel 2012 l’economista Gustavo Piga riprendendo uno studio Bce, spiegando che gli investimenti pubblici e la spesa pubblica per consumi di beni e servizi sono la componente della politica fiscale che funziona meglio per uscire da una recessione; altro che taglio delle tasse. Una conclusione tutt’altro che isolata: «Nel complesso i risultati delle nostre stime e di quelle delle principali istituzioni indicano che il moltiplicatore fiscale di un aumento degli investimenti pubblici in deficit è elevato (in media compreso tra 1 e 2 nel medio periodo)», spiega l’ultimo autorevole studio di Bankitalia pubblicato nel merito.

Il problema è che, in Italia, gli investimenti pubblici sono ormai una specie in via d’estinzione. All’interno del report A european public investment outlook, curato dagli economisti Floriana Cerniglia e Francesco Saraceno, si dà la dimensione del problema.

Se negli ultimi diciassette anni, la spesa della Pa italiana è costantemente cresciuta dal 46,5% del Pil nel 2000 al 48,7% nel 2017 (con un picco del 51% nel 2013) gli investimenti pubblici nel nostro Paese rappresentano (dati 2018) il 2,1% del Pil, una quota inferiore di 0,6 punti rispetto alla media dell’Eurozona (2,7%) e che posiziona l’Italia al penultimo posto in Ue davanti ad Irlanda e Portogallo (2,0%).

Si calcola per l’Italia, un fabbisogno annuale di investimenti infrastrutturali (per il periodo 2016-2040) di 67 miliardi di dollari con riferimento a soli sette settori (energia elettrica, strade, ferrovie, telecomunicazioni, acqua, porti e aeroporti), mentre di fatto in totale gli investimenti fissi lordi delle Pa sono pari a circa 37 miliardi di euro (dato 2018).

Se ben investite, risorse aggiuntive farebbero solo bene (anche) al bilancio pubblico, dato che «l’effetto positivo sulla crescita determinerà anche una diminuzione del rapporto debito/Pil». Eppure.

Ora ci troviamo di fronte a un bivio. Con il Next generation EU in fase di trattativa europea all’Italia spetterebbero 172,7 miliardi di euro, di cui 81,8 a fondo perduto, che dobbiamo dimostrare di saper investire. Dove?

Il rapporto curato da Cerniglia e Saraceno mette in chiaro che dopo Covid-19 «il nuovo “normale” non sarà più come prima» e che per superare quest’interregno serve «affrontare la transizione ambientale; ridefinire la portata e l’estensione dei servizi pubblici come l’assistenza sanitaria; assicurarsi di avere a disposizione le risorse (umane e fisiche) per affrontare le crisi globali che in futuro potrebbero aumentare di frequenza – in tutti questi casi dovremo investire non solo in beni materiali, ma anche in beni immateriali come la Ricerca e Sviluppo (R&S), la coesione territoriale o il capitale sociale».

Il decreto Semplificazioni che il Governo sta limando per portarlo in Cdm (pare) entro la fine di questa settimana può essere il primo passo per sbloccare parte degli investimenti per cui le risorse economiche ci sarebbero, ma si ritrovano imbrigliate in una trafila autorizzatoria dove, ad esempio, una Valutazione d’impatto ambientale (Via) può arrivare a concludersi dopo nove anni. Più di quelli necessari a realizzare l’opera.

Non a caso tra le proposte avanzate nel dl Semplificazioni c’è quella di velocizzare le pratiche via per quelle opere che rientrano nel perimetro del Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) e, più in generale, come riassume il Sole 24 Ore si fissa «un termine certo di 60 giorni per la Valutazione di impatto ambientale in conferenza di servizi e, se il provvedimento non arrivasse, la possibilità per l’amministrazione proponente di fare ricorso al Consiglio dei ministri per i poteri sostitutivi».

Non è detto che un intervento simile si concretizzi in un’effettiva semplificazione senza prima irrobustire a sufficienza il personale addetto alle Via negli uffici competenti delle Regioni, ma si tratta in ogni caso di modifiche che vale la pena misurare attentamente sul campo. Il problema, semmai, è che alle Semplificazioni deve abbinarsi giocoforza una politica industriale coerente e votata allo sviluppo sostenibile – mentre ad oggi continuano a vedersi solo sindromi Nimby e Nimto – affinché la partita non si risolva in un liberi tutti.

Da questo punto di vista non è incoraggiante apprendere che, tra le pieghe del dl in bozza, è tornata ad affiancarsi l’ipotesi di un nuovo condono edilizio: «La norma sul ‘condono’ surrettizio inserita nel dl Semplificazioni va stralciata – commenta il sottosegretario all’Ambiente Roberto Morassut – perché è una norma ‘ammazza suolo’ in totale contrasto con l’obiettivo del Governo di limitare il consumo di suolo e arrivare al saldo zero nel 2050. È tempo di Green new deal, non di condoni».