Brandolini: «Soprattutto al Centro e al Sud si registra una carenza impiantistica»

I moderni inceneritori non comportano «un rischio reale e sostanziale» per la salute

I Politecnici di Milano e di Torino e le Università di Trento e di Roma 3 Tor Vergata hanno elaborato per Utilitalia il “Libro bianco sull’incenerimento di rifiuti urbani”

[26 Febbraio 2021]

Il neo ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, professa che il lavoro del “suo” dicastero sarà impostato all’insegna della mitezza ma contro ogni posizione ideologica: sarà interessate capire al proposito come si posizionerà sugli inceneritori, che da sempre in Italia – mentre nell’Europa del nord sono un impianto industriale come un altro, utile o meno a seconda del contesto –  rappresentano uno spartiacque tra tifosi (contrari o a favore che siano).

Per andare oltre il clima da stadio e provare a fare chiarezza, Utilitalia – la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche – ha commissionato intanto uno studio nel merito ai ricercatori di quattro Atenei italiani: i Politecnici di Milano e di Torino e le Università di Trento e di Roma 3 Tor Vergata. Il risultato è il Libro bianco sull’incenerimento di rifiuti urbani, presentato oggi.

Ne emerge che attualmente in Italia sono attivi 37 inceneritori (in costante calo da anni a causa di contestazioni locali) contro 96 in Germania e 126 in Francia. Nel 2019 hanno gestito 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e rifiuti speciali da urbani, producendo 4,6 milioni di MWh di energia elettrica e 2,2 milioni di MWh di energia termica; questa energia è in grado di soddisfare il fabbisogno di circa 2,8 milioni di famiglie ed è annoverata da anni come “rinnovabile” al 51% (la legge 30/12/08 n°210 fissa convenzionalmente a tale livello la percentuale biodegradabile di rifiuti che alimenta gli inceneritori, nelle more di una metodologia di calcolo più razionale che attende da tempo immemore).

Questi inceneritori s’inseriscono all’interno della gerarchia europea per la gestione dei rifiuti indicata dall’Ue, che pone il recupero energetico – ambito entro il quale rientrano – come step successivo al riciclo e precedente lo smaltimento. Si tratta di un approccio complessivo al problema rifiuti, dove nessuno scalino può essere saltato: ad esempio, l’85% delle ceneri pesanti prodotte dalla combustione negli inceneritori «sono ormai interamente avviate a processi di riciclaggio», mentre il resto va smaltito.

«I dati sulla gestione dei rifiuti in Italia – osserva nel merito Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia – dimostrano che anche la raccolta differenziata e gli impianti non sono due elementi contrapposti, anzi: i territori che registrano le percentuali più alte di raccolta differenziata, non a caso, sono proprio quelli in cui è presente il maggior numero di impianti. L’emergenza coronavirus ci ha confermato che se non si pianifica e si realizza un sistema infrastrutturale nazionale che tenda all’autosufficienza nella gestione dei rifiuti, il nostro Paese resta esposto a periodiche situazioni di crisi, che possono essere dovute a cause molto differenti ma con effetti comunque negativi».

Basti pensare al ruolo svolto dagli inceneritori durante questa crisi sanitaria: hanno garantito la tenuta del sistema di gestione rifiuti a fronte dell’aumento di rifiuti indifferenziati di guanti e mascherine o a rischio sanitario e di altri rifiuti non altrimenti gestibili.

Anche in questo caso però non ci sono pasti gratis. Posto che nessun processo industriale, come del resto nessuna attività umana, è a impatto ambientale zero, quali sono gli impatti degli inceneritori?

«In termini di emissioni climalteranti – argomenta lo studio – la discarica ha un impatto 8 volte superiore a quello del recupero energetico negli inceneritori. Diversi flussi di rifiuti, se non recuperati energeticamente, hanno come alternativa il solo smaltimento in discarica: gli scarti del riciclaggio delle frazioni organiche, 127 mila tonnellate di scarti del riciclaggio della plastica, 300 mila tonnellate del riciclaggio della carta e 180 mila tonnellate del riciclaggio dei veicoli a fine vita».

Guardando invece alle emissioni inquinanti, per gli inceneritori «ci sono limiti molto stringenti alle emissioni che non hanno eguali nel panorama delle istallazioni industriali. Relativamente alle Pm10, lo studio evidenzia che il contributo degli inceneritori è pari solo allo 0,03% (contro il 53,8% delle combustioni commerciali e residenziali), per gli Idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) è pari allo 0.007% (contro il 78,1% delle combustioni residenziali e commerciali) e per le diossine ed i furani si attesta allo 0,2% (contro il 37,5% delle combustioni residenziali e commerciali)».

Anche il rilievo dei livelli di diossina riscontrabili nella popolazione residente in ambienti pros­simi agli impianti di incenerimento «non ha evidenziato livelli superiori rispetto a quelli riscontrabili in una popolazione che vive in aree non interessate da questi impianti».

Sotto il profilo sanitario lo studio, come del resto già avvenuto con una recente pubblicazione curata dall’Imperial college di Londra, offre conclusioni chiare: «È scientificamente riconosciuto che, le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla sa­lute degli inceneritori riconducibili ad inquinanti potenzialmente presenti nelle emis­sioni quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre ad impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni 1990. In base agli studi disponibili, in generale, un impianto di incenerimento ben proget­tato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione (dagli anni 2000 in poi) emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali e, pertanto, non si ha evidenza che comporti un rischio reale e sostanziale per la salute». Il punto centrale è dunque il rispetto o meno delle attuali Best available techniques (Bat).

Dunque, in Italia servono o meno nuovi inceneritori? Per Utilitalia indubbiamente sì: aumentare la capacità di trattamento degli impianti è fondamentale per chiudere il ciclo dei rifiuti, perché anche la raccolta differenziata ed il riciclo producono scarti che vanno smaltiti nella maniera ambientalmente più corretta. «Nel nostro Paese, soprattutto al Centro e al Sud – ricorda Brandolini – si registra una carenza impiantistica e se non si inverte questa tendenza, continueremo a ricorrere in maniera eccessiva allo smaltimento in discarica: attualmente ci attestiamo al 20% e dobbiamo dimezzare il dato nei prossimi 14 anni». Con delle direttive recentemente recepite anche in Italia, l’Ue ha infatti fissato al 2035 gli obiettivi del riciclaggio effettivo pari al 65% e della riduzione del ricorso alla discarica al di sotto del 10%.

Per capire obiettivamente se altri inceneritori possano essere utili o meno al Paese, la strada da seguire la indica però sempre il recepimento di queste direttive: il ministero dell’Ambiente – oggi ministero della Transizione ecologica – ha avviato nel novembre scorso l’iter per arrivare a definire il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, dal quale si attendono dunque precise indicazioni sotto il profilo impiantisco. Per completarlo ci sono massimo 18 mesi, e 3 sono già passati.