L'intervento dell'autore al convegno Flc-Cgil dal titolo “Sviluppo sostenibile e Green New Deal: non sono possibili senza ricerca e innovazione”

Non c’è Green new deal senza ricerca e innovazione

In Italia la specializzazione industriale in settori a medio-bassa intensità tecnologica da troppo tempo condiziona la crescita, e potrà limitare fortemente anche il percorso verso una svolta “verde”: ma qualcosa sta cambiando

[21 Febbraio 2020]

Il rinnovato impegno che l’Europa si è data per affrontare la crisi climatica attraverso un “Green new deal” è il segno di una grande sfida tutta di là da venire. Perché se l’idea di un Green new deal, che mette in moto risorse più consistenti finalizzate agli obiettivi della decarbonizzazione, è un importante passo verso la realizzazione di un reale progetto di contrasto al cambiamento climatico, giustamente improntato al concorso coordinato di tutti i paesi dell’area, è altrettanto vero che il contesto europeo non garantisce di per sé che le diverse economie marcino nella giusta direzione.

Non si tratta infatti solo di puntare a una riduzione – ancorché significativa – delle emissioni di carbonio diminuendo l’impiego di fonti fossili grazie all’innovazione che passa per le tecnologie energetiche, ma di condurre una vera e propria “rivoluzione tecnologica”, che trasformi in ogni sua parte l’attuale paradigma di produzione e consumo delle attuali economie industriali. Ma per questo è necessaria una visione più ampia, che recuperi la dimensione di sistema dell’economia, facendo leva sulle sinergie interne tra le sue varie parti piuttosto che su azioni selettive indirizzate a singoli settori produttivi. Ciò significa, concretamente, chiamare in causa un processo in cui sia mobilitata “l’intera catena del valore della ricerca e innovazione” alla luce di una chiara “missione” quale è la sfida del clima, allo stesso modo – e come più volte sottolineato dall’economista Mariana Mazzucato – in cui si è fatto per altre grandi imprese che hanno segnato il progresso umano dell’epoca contemporanea. E non è un caso, d’altronde, che proprio questa sia l’ottica con cui è stato impostato il futuro programma Horizon Europe, che finanzierà su base europea l’attività di ricerca e innovazione nel periodo 2021-2027.

Per capire in che misura ciascun paese sarà nelle condizioni di mettere a frutto i finanziamenti europei destinati alla decarbonizzazione (inclusi gli stessi fondi strutturali) bisognerà allora innanzitutto interrogarsi sulla loro effettiva “capacità di leva” rispetto alle azioni da intraprendere, tenuto conto delle specifiche caratteristiche di ciascun “sistema della ricerca e innovazione”.

Le ripetute evidenze dello European innovation scoreboard mostrano che i paesi in generale più innovativi sono quelli che presentano una maggiore intensità di spesa in ricerca e sviluppo sul Pil, e che tale intensità è il risultato virtuoso del continuo investimento in R&S sia da parte del settore pubblico che da parte di quello delle imprese. Assai rilevante è inoltre il dato che mostra come il divario più ampio e persistente tra paesi “leader” e paesi “in ritardo” sia riflesso dall’intensità della spesa in R&S delle imprese, riconducibile in buona parte alla quota di settori ad alta o medio alta intensità tecnologica presenti nel sistema produttivo, tipicamente caratterizzati da più elevati investimenti in ricerca. Non sfugge però all’osservazione il fatto che quanto maggiore è l’intensità della spesa in ricerca delle imprese, tanto maggiore è l’intensità della spesa pubblica in ricerca, e tanto maggiore è la centralità che i processi di innovazione rivestono per lo sviluppo di ciascun paese.

Tutto questo è il frutto di precise scelte politiche di governi che si sono impegnati nel sostenere con investimenti diretti l’intero “sistema della ricerca e innovazione”, alimentando costantemente tanto la base fondamentale delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, quanto l’espansione dell’attività economica in settori ad alta intensità di conoscenza. Tutto questo traduce in ultimo quella che può chiamarsi a pieno titolo “visione di lungo periodo”, reale capacità dell’attore pubblico di “pensare in grande” e di farsi carico degli ingenti oneri e rischi che l’investimento in ricerca e innovazione comporta e che il mercato, lasciato a se stesso, non è in grado di sostenere; così come in linea di principio sostenuto nel lontano 1926 da John Maynard Keynes, nel sottolineare che “La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

I paesi con un ampio e robusto bagaglio di conoscenze scientifiche e tecnologiche sono anche quelli che non solo si dimostrano all’altezza delle nuove sfide dell’innovazione, ma che grazie ai loro saperi acquisiti sono anche in grado di utilizzare al meglio le tecnologie disponibili prodotte altrove, dando così un ulteriore impulso alla propria capacità di innovare. Più in generale, questi paesi saranno sempre quelli che trarranno il massimo profitto da ogni euro aggiuntivo speso in ricerca e innovazione, e che sapranno più efficacemente cogliere le diverse opportunità di finanziamento e/o investimento che potranno presentarsi. Recenti valutazioni (Moretti, 2019) relative al successo dei diversi paesi europei nell’ambito del programma quadro Horizon 2020, prossimo al suo scadere, mostrano ad esempio come i paesi con maggiore intensità di ricerca e sviluppo sul Pil guidino la classifica dei progetti mediamente più finanziati. Ciò induce a ritenere che la costruzione di uno “spazio europeo della ricerca”, nel quale si realizzi una riduzione delle divergenze tra paesi “leader” e paesi “in ritardo”, debba essere affidata a un coordinamento dei diversi livelli delle politiche di intervento, introducendo, laddove necessario, opportuni correttivi in ambito nazionale. Correttivi, in assenza dei quali, le attuali divergenze sono destinate ad aumentare.

La realtà, purtroppo, è andata finora in tutt’altra direzione. I paesi “in ritardo”, tra cui l’Italia, hanno da tempo effettuato una costante riduzione della spesa pubblica in ricerca, sottraendo l’apporto finanziario ai già di per sé deboli rispettivi “sistemi di ricerca e innovazione”. Il tentativo di ricondurre questa scelta alla crisi economica internazionale subentrata dal 2008 è d’altra parte immediatamente smentito da come, al contrario, hanno agito i paesi “leader”, che perfino durante il periodo della cosiddetta “austerità fiscale” hanno incrementato i fondi per la ricerca pubblica. Non meraviglia allora che, a tutt’oggi, i paesi “in ritardo” presentino un minore potenziale innovativo anche nelle tecnologie funzionali al processo di decarbonizzazione, sebbene la propensione a innovare in quest’ambito sia in linea con quella dei paesi che dominano il panorama della ricerca europea.

Prima ancora di pervenire a una chiara definizione di quelli che saranno i reali “piani” del Green new deal, dall’effettiva consistenza dei finanziamenti alla loro destinazione e articolazione, sarà necessario invertire la rotta di un processo di forte disimpegno nell’investimento in ricerca, che sempre più è andato segnando il divario di sviluppo dei paesi europei a minor crescita rispetto a quelli più dinamici e competitivi. In questo senso, le recenti “aperture” a modifiche del patto di stabilità europeo e quindi a una maggiore flessibilità fiscale concessa agli stati membri, frutto anche di un complesso dibattito che da qualche tempo – almeno due anni – ha messo in discussione il sistema di vincoli e regole implicate dai Trattati, possono rappresentare un passo avanti, purché si parta da un complessivo ripensamento delle politiche per lo sviluppo e al ruolo che in esse deve occupare la leva dell’innovazione tecnologica. A questo fine non sarà tuttavia sufficiente muovere le sole leve della spesa pubblica in ricerca, pur indispensabili nell’assicurare che non si scenda mai a livelli sotto critici di finanziamento (come di fatto accaduto), ma anche creare le condizioni affinché il sistema produttivo dei paesi “in ritardo” divenga strutturalmente più innovativo. Esattamente come suggerisce il caso dell’Italia, la cui specializzazione industriale in settori a medio-bassa intensità tecnologica da troppo tempo condiziona la crescita del reddito e dell’occupazione, mentre da ora in poi potrà, se non proprio precludere, quantomeno limitare fortemente il percorso verso una svolta “verde”.

Ma qualcosa sta cambiando. “La politica industriale è tornata in auge” ci ricorda l’economista Dani Rodrick sottolineando che anzi, “non è andata mai fuori moda” e che “sebbene gli economisti affascinati dal consenso neoliberale di Washington l’abbiano declassata, le economie di successo si sono sempre affidate a politiche di governo che promuovessero la crescita attraverso l’accelerazione del processo di trasformazione strutturale”. Una nuova stagione potrà così iniziare anche per l’Europa.