Lo sostiene il nuovo studio del think tank Bruegel

Green deal? No politica industriale verde, no party

Non basta fissare obiettivi climatici, per quanto ambiziosi, se a questi non s’accompagna una rivoluzione manifatturiera in grado di portare lavoro e benefici socio-economici alla collettività

[8 Gennaio 2021]

Senza una politica industriale, non può esserci alcun Green deal. È quanto sostiene lo studio “A green industrial policy for Europe” pubblicato dal Brussels european and global economic laboratory, ovvero Bruegel, un think tank politico economico internazionale con sede a Bruxelles. Ma perché? La tesi è più che condivisibile: “Le politiche energetiche e climatiche, da sole, non sono sufficienti per raggiungere la neutralità climatica fissata entro il 2050”.

Il punto, in buona sostanza, è che se gli interventi contro la crisi climatica si riducono a sole indicazioni normative in campo ambientale, anche stringenti, non si andrà mai da nessuna parte. I benefici, secondo Bruegel, devono essere anche economici e per la collettività. Serve che la transazione dalle fonti fossile a quelle a minor impatto ambientale porti posti di lavoro, benessere, in poche parole a un miglioramento complessivo della qualità della vita. E per far questo serve una politica industriale verde, che al momento di fatto non esiste.

Un Green deal di successo, come evidenzia l’ASviS (l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) nell’analisi del documento, “dovrà favorire importanti cambiamenti nella struttura economica europea, comprese le transizioni dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, e dal diesel alle auto elettriche. Un cambiamento ampio e radicale per le nostre economie, oltre che un’importante trasformazione socioeconomica. Con il Green deal l’Ue riconosce che le politiche energetiche e climatiche da sole non sono sufficienti per perseguire la neutralità climatica. Ad esempio, una strategia basata solo sull’aumento del prezzo del carbone rimarrebbe sterile, soprattutto se fosse accompagnata da una rivolta popolare come si è verificato in Francia con il movimento dei gilets gialli. Solo una politica più ampia, che comprenda aspetti economici, industriali, fiscali, del lavoro, dell’innovazione e della politica sociale, può affrontare una sfida così importante”.

Ed ecco la proposta, almeno a grandi linee, dentro però a un’oggettiva difficoltà di trovare un punto di caduta: “La politica industriale verde deve conciliare gli obiettivi di decarbonizzazione con il benessere sociale. La mitigazione del cambiamento climatico diventa vincolante per il raggiungimento dell’obiettivo del benessere sociale.Una combinazione di obiettivi difficile da raggiungere contemporaneamente, soprattutto quando sono in conflitto, quando sono necessari dei compromessi e quando è necessario introdurre dei costi nel momento in cui uno degli obiettivi non viene raggiunto. Inoltre, continua il blueprint, la politica industriale verde necessita di un coordinamento più ampio con la politica climatica e con le altre politiche industriali”.

Come? Per Bruegel serve una forte coesione tra il pubblico e il privato: “È fondamentale sviluppare un solido quadro normativo accompagnato dall’applicazione della politica di concorrenza, che garantisca l’accesso a un mercato Ue unico e competitivo, con standard ambientali comuni. Per sviluppare una politica industriale verde di successo, l’Ue deve lavorare a stretto contatto con il settore privato. I partenariati pubblico-privato non riguardano solo il cofinanziamento di iniziative, ma anche la garanzia di accesso a competenze, conoscenze e informazioni. L’Unione europea dovrebbe essere più coraggiosa nel promuovere l’innovazione verde; questo richiede un’assunzione di rischi significativa da parte delle istituzioni pubbliche e l’accettazione del fatto che ci saranno fallimenti”.

Gli esempi positivi non mancano, e in particolare è di interesse anche per noi ciò che stanno facendo in Germania: il suo programma di transizione energetica, che si chiama Energiewende, ha introdotto  un sistema di tariffe feed-in per promuovere l’energia rinnovabile. Le tariffe feed-in sono uno degli strumenti più comuni della politica sui cambiamenti climatici. Garantiscono ai produttori di elettricità rinnovabile un prezzo fisso superiore al prezzo di mercato. In genere, vengono utilizzate per promuovere la diffusione dell’energia solare ed eolica, riducendo l’incertezza commerciale attraverso l’individuazione di prezzi fissi nel lungo termine.

Un buon esempio, ma che per Bruegel è assolutamente insufficiente: tra il 1990 e il 2010, la Germania ha registrato performance più debole del settore della produzione di pannelli solari a causa della forte concorrenza cinese e alla mancanza di una politica industriale accomodante. Per questo se “l’obiettivo è la creazione di un’industria competitiva nazionale (…) è fondamentale sostenere anche la ricerca e lo sviluppo nel settore manifatturiero locale”. Un problema che storicamente attanaglia, e con maggiore intensità, anche il nostro Paese – dal fotovoltaico all’auto elettrica.

L’Europa, conclude il documento, è caratterizzata da una moltitudine di iniziative di politica industriale verde, intraprese a livello regionale e nazionale, ma è lontana dall’avere una vera e propria politica industriale verde coordinata a livello europeo. Non solo, “il nostro continente produce meno del 10% delle emissioni globali di gas serra (…)” e “per fare davvero la differenza in termini di protezione del clima, il Green deal deve guardare alle relazioni con i Paesi in via di sviluppo”.