A Roma la kermesse organizzata da Legambiente, La Nuova Ecologia e Kyoto Club

Ecoforum, l’economia circolare senza impianti sta portando al collasso la gestione dei rifiuti

Ciafani: «Sbaglia chi pensa che l’opzione rifiuti zero in discarica corrisponda alla costruzione di zero impianti, quando in realtà se ne devono costruire mille nuovi»

[26 Giugno 2019]

Si è aperta oggi la VI edizione dell’Ecoforum sull’economia circolare, organizzato da Legambiente, La Nuova Ecologia e Kyoto Club a Roma: una delle città migliori d’Italia per capire quantomeno cosa non bisogna fare per garantire una gestione dei rifiuti basata sui principi di sostenibilità e prossimità. Dal 2017 la Capitale d’Italia ha iniziato «il proprio percorso verso rifiuti zero», riprendendo le parole della sindaca Raggi, e come risultato esporta ad oggi 1 milione di tonnellate di spazzatura l’anno prodotta dai propri cittadini, perché non ha sul territorio gli impianti industriali necessari a gestirla; secondo le stime Ama riportate da Legambiente, si tratta di circa il 44% dei rifiuti capitolini.

Dall’esempio di Roma è possibile trarre una lezione: per intraprendere la strada dell’economia circolare più che di rifiuti zero dovremmo parlare di impianti mille, in assonanza col report presentato oggi da Legambiente. «Sbaglia chi pensa che l’opzione rifiuti zero in discarica corrisponda alla costruzione di zero impianti, quando in realtà se ne devono costruire mille nuovi», dichiara il presidente del Cigno verde, Stefano Ciafani. Perché la “visione bucolica” dell’economia circolare non regge più: è necessario prendere coscienza che perseguirla significa in primo luogo parlare di una maggiore industrializzazione, una maggiore presenza di impianti di gestione rifiuti nei nostri territori. E un approccio ampio all’intera filiera, dalla produzione al consumo finendo con la re-immissione sul mercato dei prodotti riciclati. Parlare solo in termini di raccolta differenziata, è evidente, non basta. «Il tema da affrontare è quello degli impianti finali di recupero e smaltimento oramai in fase di saturazione, che sta generando mercato per l’illegalità – argomenta Stefano Carnevali, ad di Unieco – Il no agli impianti fa un favore a quelle aziende che operano, a dir bene, in modo borderline. Il mercato del recupero e dello smaltimento non sono in competizione ma sono complementari, come mostra il settore delle bonifiche».

Per capire che «la gestione dei rifiuti in Italia sta diventando paradossale», come osserva il vicepresidente di Kyoto Club, Francesco Ferrante, basta dare un’occhiata al settore dei rifiuti organici: oggi la Forsu rappresenta il 40,3% della raccolta differenziata (6,6 milioni di tonnellate su 16,4 totali, +10% circa negli ultimi 10 anni), ma l’ultimo rapporto del Consorzio italiano compostatori  (Cic) indica come ad oggi gli impianti di digestione anaerobica per il trattamento dell’organico ne intercettino appena 3 milioni di tonnellate, meno della metà. Non si è capito che «la raccolta differenziata non è il fine, ma un mezzo», come testimonia il direttore del Cic Massimo Centemero; anzi, la raccolta differenziata «da sola non è in grado di risolvere problemi ma semmai ne crea altri, se non è di qualità – incalza Carnevali – Tanto che ad oggi abbiamo uno scarto del 25-30%». Ovvero oltre un quarto della raccolta differenziata non trova la via del riciclo, non solo perché mancano gli impianti industriali per valorizzarla ma anche perché i conferimenti dei cittadini sono spesso sbagliati: in entrambi i casi, un tragico errore di mancata comunicazione ambientale. Al contrario, è necessario spiegare che «nell’economia circolare i gestori del servizio devono utilizzare tecnologie innovative che permettano – afferma l’ad di Alia, Alessia Scappini – di trattare i rifiuti per recuperarli con filiere territoriali. I prossimi due anni vedranno Alia impegnata nell’introduzione e riorganizzazione delle raccolte per 1 milione di abitanti; per questo dobbiamo gestire la valorizzazione dei rifiuti, attraverso una filiera industriale».

Per far questo oltre agli impianti industriali e a una buona comunicazione occorrono normative di settore certe e stabili, e (dis)incentivi economici in grado di premiare il rispetto della gerarchia europea: prevenzione, riuso, recupero di materia, recupero di energia, smaltimento, nessun passaggio escluso. Tutti punti sui quali l’Italia purtroppo ad oggi non eccelle.

Per quanto riguarda il quadro normativo è totemico l’esempio della partita sull’End of waste, che dall’inizio del 2018 paralizza le possibilità di riciclo nel Paese; dopo oltre un anno di latitanza le forze politiche di governo hanno partorito un emendamento all’interno dello Sblocca cantieri che si è rivelato però totalmente inadeguato allo scopo, come ampiamente evidenziato da Assoambiente, Utilitalia e Unicircular, tanto che il presidente di quest’ultima associazione d’impresa – Andrea Fluttero – ha presentato oggi una nuova proposta d’emendamento, che la deputata LeU Rossella Muroni si è incaricata di sottoporre al sottosegretario all’Ambiente Salvatore Micillo.

In riferimento invece ai (dis)incentivi economici per l’economia circolare, Legambiente ha posto l’accento sul Tributo speciale per il conferimento in discarica dei rifiuti solidi – noto anche come ecotassa – dove il beneficiario sono le Regioni, mentre il soggetto passivo del tributo è il gestore dell’impianto, con obbligo di rivalsa su chi effettua i conferimenti (generalmente società operanti nel settore dei rifiuti urbani, sino ad arrivare ai Comuni che, a loro volta, si rivarranno sui residenti attraverso l’applicazione della Tari). L’ecotassa nasce per disincentivare l’impiego delle discariche, dove però secondo Legambiente i costi di smaltimento continuano ad essere troppo bassi: la cifra si attesta oggi sui 110 euro a tonnellata, mentre nel 2013 il costo medio era di circa 90 euro/tonnellata, ed è necessario migliorare ancora.

Al proposito è giusto osservare che alcuni progressi non sono mancati. Su 170,9 milioni di tonnellate/anno di rifiuti prodotti in Italia tra urbani (29,6 milioni t nel 2017) e speciali (141,3 milioni t di tonnellate gestite nel 2016 di cui 135,1 milioni prodotte) sono 18,9 le milioni di tonnellate di rifiuti (rispettivamente 6,8 di rifiuti urbani e 12,1 di rifiuti speciali) finite in discarica: complessivamente l’11% del totale dei rifiuti prodotti, ovvero l’8,6% degli speciali e il 23% degli urbani. È dunque soprattutto quest’ultimo dato che deve migliorare, come imposto anche dalle nuove direttive Ue sull’economia circolare che fissano un tetto massimo del 10% per lo smaltimento di rifiuti urbani in discarica al 2035.

Per concorrere all’obiettivo da Legambiente chiedono da una parte di modificare la normativa nazionale per trasformare l’attuale tetto massimo dell’ecotassa di circa 25 euro a tonnellata in una soglia minima, prevedendo in tutte le Regioni una modulazione in base al secco residuo che si avvia a smaltimento; dall’altra di incrementare il numero di impianti per la gestione dei rifiuti diversi dalle discariche.

Naturalmente, buon senso vuole che il numero degli impianti alternativi effettivamente disponibili aumenti prima o in contemporanea all’ecotassa, a meno che non si voglia accrescere i costi per cittadini e imprese insieme al numero di discariche – stavolta abusive – sul territorio.

Per quanto riguarda invece le discariche gestite in sicurezza e dunque legalmente autorizzate ad operare l’Ispra ne ha censite sul territorio nazionale 383, tra discariche per rifiuti speciali e urbani attive al 2017, mentre il numero di impianti afferenti ai principali consorzi che raccolgono le frazioni differenziate, da quelli del sistema Conai alla frazione organica dei rifiuti (Cic) o la raccolta degli oli minerali usati (Conou) è di circa 1.700 unità tra piattaforme di stoccaggio, impianti di selezione e riciclo: «Il rapporto 4 a 1 tra il numero degli impianti della filiera del riciclo e quello delle discariche operative in Italia è assolutamente inadeguato di fronte alla sfida futura per l’economia circolare del nostro Paese», dichiarano dal Cigno verde.

Occorre dunque urgentemente realizzare impianti alternativi alle discariche, senza però cadere nuovamente nella tentazione del “pensiero magico”: i mille impianti di riciclo a loro volta non produrranno rifiuti zero, poiché non si sfugge alle leggi della termodinamica: quando assistiamo a qualsiasi trasformazione, come accade in ogni processo industriale riciclo compreso, una parte dell’energia e della materia disponibile si degradano irreversibilmente. Ecco dunque perché anche le attività di riciclo producono a loro volta nuovi rifiuti, stimati in 2,5 milioni di tonnellate nel 2016. Anche agli scarti da riciclo, come alle frazioni estranee della raccolta differenziata e più in generale a tutti quei rifiuti non riciclabili è necessario assicurare una gestione sostenibile e di prossimità, per la quale occorrono impianti di recupero energetico (come i termovalorizzatori, ad esempio) e di smaltimento finale, ovvero le discariche, come ultima opzione. Il problema è che, mentre parliamo d’altro, presto non potremo contare più neanche su quest’ultima extrema ratio: le imprese di settore riunite in Assoambiente stimano che – senza interventi – in appena due anni anche le discariche italiane saranno piene, e se non riusciremo a realizzare nuovi impianti industriali per la gestione dei rifiuti sul territorio le uniche “soluzioni” saranno l’export di rifiuti e/o il proliferare delle discariche, ma illegali. Con buona pace dell’economia circolare.