Il nuovo report Greenpeace. «Per metterci “al sicuro” ha più senso spendere per l’acquisto di un carro armato o per decine di migliaia di tamponi?»

Dopo Covid-19 tagliare la spesa militare per investire in sanità, scuola e green economy

Il patrimonio immobiliare della Difesa è più ampio di tutti gli asili pubblici italiani, mentre basterebbe rinunciare a 1 F-35 per poter avere 3.244 nuovi posti letto in terapia intensiva

[3 Agosto 2020]

La spesa militare italiana continua a correre, nonostante l’emergenza sanitaria da Covid-19. A giugno, neanche un mese dopo la fine del lockdown, è scattato un ordine da 368 milioni di dollari per la consegna (entro il 2023) di 6 caccia F-35 realizzati dalla Lockheed Martin per il nostro Paese; una goccia nel mare dei 14 miliardi di euro stimati per ottenere i 90 cacciabombardieri previsti. Una pioggia di denaro che però non può nulla per metterci al sicuro da un minuscolo virus e che drena risorse pubblici da comparti – come sanità, istruzione, green economy – che potrebbero dare invece molto di più.

Un paradosso messo al centro di una nuova analisi elaborata da Greenpeace: «La nostra ricerca parte da una domanda semplice – spiega Chiara Campione, portavoce della campagna Restart di Greenpeace Italia – Per metterci “al sicuro” ha più senso spendere per l’acquisto di un carro armato o per decine di migliaia di tamponi? Se questi ultimi mesi ci hanno insegnato qualcosa, è che la sicurezza non si raggiunge con la potenza militare. Dovremmo ripensare la spesa pubblica affinché serva la salute e il reale benessere delle persone e del Pianeta. Dovremmo ripensare la spesa pubblica affinché serva la salute e il reale benessere delle persone e del Pianeta».

Basti un esempio: per un caccia F-35 si spende la stessa cifra che serve per allestire 3.244 posti letto in terapia intensiva. L’Italia nel 2019 ha impiegato quasi 24 miliardi di euro in spesa militare (l’1,4% del Pil), una spesa che nel 2020 si prevede un aumento di oltre 1,5 miliardi di euro, con un fondo per acquisti di nuovi armamenti di quasi 6 miliardi di euro; eppure secondo i dati della fondazione Gimbe messi in fila da Greenpeace, oltre 37 miliardi di euro sono stati sottratti alla sanità pubblica in Italia tra il 2010 e il 2019.

Anche la scuola, come noto, gode di risorse pubbliche storicamente inadeguate. A settembre la faticosa riapertura delle scuole, che interessa oltre 8 milioni di studenti, si scontrerà con la mancanza di spazi per garantire il distanziamento sociale. Una delle soluzioni ipotizzate è l’utilizzo di caserme: infatti “la Difesa dispone di un importante patrimonio immobiliare, costituito da circa 4.300 tra infrastrutture ed aree addestrative attivamente in uso”. Per confronto, gli asili nido pubblici in Italia sono solo 4.250.

Una distanza che si misura anche all’interno del dibattito sulla riconversione dell’industria delle armi. Come spiega Giorgio Beretta, analista presso l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal), «si è sempre pensata come strategica, soprattutto negli ultimi 20 anni, la produzione di tipo militare che permette attraverso l’appoggio politico di guadagnarsi dei mercati esteri, e non si è invece considerata strategica la produzione di tipo sanitario” aggiunge Beretta. L’analista specifica inoltre che: “In Italia sono 231 le imprese produttrici di armi e munizioni, rispettivamente 107 e 124. Una sola, la Siare Engineering, produce ventilatori polmonari. Siamo fortemente dipendenti dall’estero per macchinari vitali». Una lacuna pagata cara in tempi di Covid-19.

«Un Paese non sarà necessariamente più sicuro se spende di più per la difesa – aggiunge Nan Tian del Sipri, lo Stockholm international peace research institute – Altri potrebbero vedere una maggiore spesa come una minaccia e aumentare anche loro la spesa, avviando nella regione una specie di piccola corsa alle armi». E in effetti la corsa alle armi rimane una costante nel nostro mondo: nel 2019  le spese militari globali totali sono salite a 1.917 miliardi di dollari, con un aumento del 3,6% sul  2018, la più grande crescita annuale delle spese militari dal 2010. Difficile sentirsi più al sicuro, semmai il contrario.

Queste enormi risorse economiche potrebbero essere spese in modo più produttivo? Secondo la Global commission on adaptation (Gca), creata nel 2018 dall’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon al fine di prepararsi alla crisi climatica, se i 1.800 miliardi di dollari della spesa militare globale del 2018 venissero investiti in cinque settori chiave per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici, in dieci anni si genererebbe un ritorno economico netto di 7.100 miliardi. Con evidenti benefici ambientali, sociali ed economici: non a caso nel  celebre “Programma bioeconomico minimale” realizzato dall’economista Georgescu-Roegen – l’antesignano della moderna economia ecologica – al primo posto c’è proprio la proibizione della produzione di tutti i mezzi bellici.

Una trasformazione enorme, certo, ma che potrebbe essere costruita partendo da piccoli passi. «C’è necessità di una “riconversione della committenza”, cioè il passaggio della produzione da militare a civile», argomenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo e tra i fondatori dell’Osservatorio Mil€x. Ad esempio l’ampia gamma di elicotteri militari potrebbe già andare a potenziare la flotta antincendio visto che, secondo i dati della Protezione civile, quattro regioni italiane (Abruzzo, Basilicata, Molise e Umbria) sono prive di mezzi aerei propri con capacità antincendio.

«La ripartenza dopo il Covid-19 – conclude Campione – può essere un’occasione storica. Il Governo italiano si trova di fronte a un bivio: ripristinare il vecchio sistema economico fondato su attività inquinanti e distruttive o ripartire facendo tutte quelle scelte per consegnare alle future generazioni un Paese più sicuro, verde e pacifico. Riteniamo queste ultime non solo necessarie ma impossibili da rimandare».