Distretto circolare sì, no, forse: chi decide sulla gestione rifiuti in Toscana?

Sul caso di Empoli si rimpallano Comune e Regione, mentre i comitati si dicono disponibili a “discutere di alternative”. Ma le uniche possibili sono termovalorizzatori, discariche o export

[9 Dicembre 2022]

Neanche due settimane sono state sufficienti per marcare quella che sembra già una chiara inversione di rotta nel supporto istituzionale al Distretto circolare di Empoli.

Come ormai noto l’ipotesi progettuale prevede di realizzare, nell’area industriale del Terrafino, un impianto di riciclo chimico per ricavare metanolo e idrogeno da 256 mila t/a di rifiuti secchi non riciclabili meccanicamente (come Css e plasmix), ad oggi destinati a termovalorizzazione, a discarica o all’export.

Un’ipotesi presentata per la prima volta in Consiglio comunale lo scorso aprile, registrando disponibilità al confronto da tutte le forze politiche in campo, vista anche la natura dei proponenti: un’Alleanza circolare di soggetti capeggiata da Alia – il gestore interamente pubblico dei servizi d’igiene urbana nell’Ato centro, comprendente anche Empoli –, che ha fatto la sua proposta in risposta all’Avviso pubblico bandito dalla Regione Toscana per definire il nuovo Piano regionale di gestione rifiuti.

Lo scopo primario dell’impianto sarebbe quello di rispondere almeno in parte alla carenza impiantistica dell’Ato centro, corrispondente – guardando solo ai rifiuti urbani indifferenziati e agli scarti della raccolta differenziata – a 400mila t/a, come chiarito dall’assessora Monni (a livello regionale si parla invece di un deficit pari a 597mila t/a solo per i rifiuti secchi, arrivando a oltre 1 mln t/a estendendo il quadro anche a rifiuti organici e fanghi di depurazione, per rispettare gli obiettivi Ue al 2035).

Attorno a quest’ipotesi è stato imbastito un percorso di partecipazione pubblica, prima ancora che fosse disponibile un progetto dettagliato, in modo da coinvolgere fin da subito la popolazione residente e gli stakeholder.

Una volta che l’ipotesi ha così iniziato a prendere concretezza, l’ormai cronica quanto comprensibile sfiducia di una parte della cittadinanza verso istituzioni pubbliche e imprese è stata catalizzata da alcuni neonati comitati – in primis Trasparenza per Empoli – in una protesta che, il 26 novembre, ha portato in piazza circa 2mila persone.

Inizialmente, la richiesta dei comitati era quella di avere a disposizione un progetto da poter fare valutare da soggetti “terzi” e interamente scelti dagli oppositori. Quando Alia si è dunque detta disponibile a «prendere il tempo necessario per definire il progetto definitivo da offrire ad un confronto con tecnici ed esperti individuati dai cittadini e dai comitati, prima ancora della presentazione in Regione», la sindrome Nimby (non nel mio giardino) ha gettato la maschera: a prescindere dai contenuti del progetto, i contrari all’ipotesi l’impianto non lo vogliono.

E dalla sindrome Nimby a quella Nimto (non nel mio mandato elettorale) adesso il passo rischia di essere davvero breve. Due giorni fa la sindaca Brenda Barnini, a valle della direzione territoriale del Pd – lo stesso partito che rappresenta la maggioranza in Regione e che esprime i sindaci di molti dei Comuni che compongono l’Ato centro, a loro volta soci di Alia – ha dichiarato al quotidiano locale La Nazione: «Non decido io. I rifiuti sono competenza della Regione, a cui spetta il compito di decidere, pianificare e localizzare. Se il territorio non condivide la Regione dovrà prenderne atto».

Un riposizionamento che ha trovato l’apprezzamento del comitato Trasparenza per Empoli: «Apprendiamo con contentezza, e anche un po’ di stupore, che la sindaca, come noi, dice no al progetto di questo gassificatore. Siamo contenti che la prima cittadina di Empoli abbracci di nuovo il suo ruolo di rappresentante della comunità e che si faccia portavoce del giusto dissenso che è emerso nella popolazione».

Ma neanche la Regione sembra così desiderosa di decidere: «Il Comune insieme al proponente Alia, che è peraltro società partecipata dal Comune stesso – ha dichiarato ieri l’assessora Monni – ha scelto in autonomia di considerare questa ipotesi progettuale, impostando un lavoro di confronto con la cittadinanza aperto e trasparente. La Regione, come noto, non ha competenze sui rifiuti speciali e quindi su impianti di riciclo e recupero».

La risposta della sindaca, stamani sulle colonne locali de Il Tirreno, non si è fatta attendere: «Noi possiamo anche fermarci qui se di fronte ad una proposta di investimento industriale c’è un rigetto da parte della comunità. La Regione ha scelto di non pianificare gli impianti di smaltimento per i rifiuti urbani (discariche e termovalorizzatori) e di trattare tutto come rifiuti speciali, adesso dovrà comunque fare le sue scelte e pianificare le soluzioni per i rifiuti urbani».

Ma per quale motivo oggi il dibattito politico si affretta a precisare che si parla di rifiuti speciali – ovvero quelli provenienti da attività industriali, commerciali, sanitarie, ecc, e non direttamente dalle case dei cittadini – quando finora è stato ripetuto che l’impianto risponde alle esigenze di Ato centro, dunque dei Comuni, e quindi incentrando il discorso sui rifiuti urbani?

È utile ricordare che le norme individuate dal Testo unico ambientale (dlgs 152/2006) vietano di smaltire rifiuti urbani tal quali. Ma una volta passati attraverso un impianto di trattamento meccanico biologico (Tmb), voilà: i rifiuti urbani diventano speciali e possono essere affidati al mercato, per andare ovunque, anche al di fuori dell’Ato o Regione di competenza. Lontano dagli occhi e dal cuore dei cittadini. È il cosiddetto “turismo dei rifiuti urbani”, che infatti in Italia percorrono circa 68 milioni di chilometri l’anno.

Per dirla con le parole contenute nell’ultimo rapporto Ispra dedicato ai rifiuti urbani: «Nonostante l’art. 182-bis del d.lgs. 152/2006 stabilisca il principio dell’autosufficienza per lo smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e per i rifiuti del loro trattamento a livello di ambito territoriale ottimale, l’analisi dei dati evidenzia che i rifiuti in uscita dagli impianti di trattamento meccanico biologico, vengono di frequente avviati a smaltimento in regioni diverse da quelle in cui sono stati prodotti».

Del resto, in Toscana un terzo di tutti i rifiuti speciali arriva dal trattamento di altri rifiuti e acque reflue. Ma mentre i rifiuti urbani ricadono nell’ambito della privativa comunale e dunque la loro gestione è (su base diretta o tramite affidamento) in capo alla mano pubblica, i rifiuti speciali sono di norma affidati al mercato. Di fatto però tutta l’infrastruttura impiantistica per la loro gestione, dal riciclo al recupero energetico allo smaltimento, è soggetta e dunque dipende dalle autorizzazioni pubbliche, che in questo caso arrivano (o meno) dalla Regione. Che ha dunque una responsabilità indiretta fondamentale nella gestione (o meno) degli speciali.

Il vecchio Piano rifiuti e bonifiche (Prb) della Toscana è scaduto da anni senza aver centrato nessuno dei principali obiettivi che si era dato, in larga parte per le enormi difficoltà nel realizzare nuovi impianti di gestione – un gap che sta pesando sempre di più sulla Tari pagata da cittadini e imprese –, tra cui spicca il termovalorizzatore di Case Passerini: in quel caso la Regione aveva provato a localizzare un impianto per colmare il gap impiantistico dell’Ato centro, ma ha fallito.

Per stilare il nuovo Piano ha provato stavolta ad adottare, tramite l’Avviso pubblico, un’impostazione “dal basso” per raccogliere le proposte impiantistiche direttamente dai gestori di rifiuti operanti sui vari territori. Ma anche quest’approccio sembra fallimentare, com’è ormai evidente nel caso empolese.

Il risultato finale sembra essere che la cittadinanza, stordita da anni di retorica incentrata solo su concetti come raccolta differenziata, “rifiuti zero” e “plastic free”, adesso è ancora più restia ad accettare nuovi impianti industriali di gestione rifiuti sul proprio territorio (non solo in Toscana). Al contempo la classe politica, dopo anni di continue crisi socioeconomiche mal gestite dalla mano pubblica, ha ormai un capitale di fiducia minimale da poter vantare nei confronti della cittadinanza: così una protesta di 2mila persone diventa sufficiente a mettere spalle al muro un progetto pensato per soddisfare le esigenze di un territorio – l’Ato centro – dove vivono 1,5 milioni di residenti. Il risultato finale, senza una politica in grado di spiegare le proprie ragioni e di reggere il dissenso quando queste non sono gradite dall’auditorio, è che gli impianti non si fanno.

Al momento gli unici soggetti vincenti nel confronto sono i comitati, che si dicono disponibili a “discutere di alternative” sulla gestione rifiuti. Alternative che sono certamente presenti: si chiamano termovalorizzatori, discariche o export, in ordine di sostenibilità ambientale. Basterebbe esserne consapevoli. Occorre sempre fare attenzione ai propri desideri, perché potrebbero avverarsi.