Mazzanti: «E’ sbagliato affermare che la riduzione delle imposte si leghi alla crescita»

Disoccupazione, il problema non sono le tasse sul lavoro

Dopo i disastrosi dati diffusi dall’Ilo e confermati da Davos torniamo sul Jobs Act di Renzi con l’economista Massimiliano Mazzanti

[24 Gennaio 2014]

Parte del Jobs Act si focalizza e focalizzerà certamente sulla riduzione del carico fiscale sul lavoro ed impresa, inclusa l’Irap regionale. Occorre una riflessione per ragionare laicamente sull’efficacia di una tale azione. Certamente l’appeal di un tale intervento è elevato, soprattutto in una fase recessiva dove mancano oggi leve sufficienti per sostenere la domanda di beni. Tuttavia, non bisogna abbandonarsi al conformismo, ma usare bene la teoria economica e cercare di aumentare efficacia ed efficienza degli interventi. Per punti:

1. Non vi è evidenza empirica robusta sulla relazione tra (basse) tasse sul lavoro e crescita economica. I costi del lavoro sono uno dei costi produttivi, spesso non il principale indice di competitività. Ridurli ha effetti soprattutto sulla domanda di lavoro per i soggetti meno qualificati e sulla domanda di beni, che però reagisce a minori imposte via due filtri: risparmio e quota di beni importati.  L’effetto sulla domanda nazionale è quindi minore rispetto ad interventi – di aumento – sulla spesa pubblica.

2. In ogni caso, si tratterebbe di sposamenti del carico fiscale ‘dal lavoro alle cose’: bisognerebbe introdurre nel Jobs Act la riforma fiscale verde d’ispirazione Delors. Va da sé che alcuni settori sarebbero toccati più di atri da tasse ambientali su emissioni e risorse, ma si tratta di azioni a carico fiscale invariato nell’aggregato. Sulle ‘risorse’ – rifiuti, materiali, emissioni locali, etc. – vi sono spazi di azione regionale per abbattere Irap. Sul versante tassazione dei gas serra e riduzione dei sussidi impropri energetici, spazi per ridurre le imposte sul lavoro. Torniamo alla domanda: è la scelta migliore?

3. Il problema italiano non è per chi scrive tanto un problema di competitività legato a elevati costi del lavoro, ma a bassa produttività del lavoro (Pini, 2014, che pone la domanda centrale: “Ma siamo certi che impegnare tutte le risorse disponibili per la riduzione del cuneo sia la politica più adatta per far uscire il paese dalla crisi in presenza di una trappola della produttività che caratterizza il nostro paese da venti anni”?), che discende in gran parte da deficit di investimenti in R&S (solo 1.3% del PIL vs il 3% fissato dall’agenda di Lisbona) e innovazione in molti settori, aggiunto al tasso tendenziale di inflazione più elevato della media EU (vero indice di competitività di prezzo),  generato da mercati spesso non sufficientemente concorrenziali.

4. Quindi emerge un problema di efficacia nella riallocazione fiscale: con un 1€ aggiuntivo di imposte sulle rendite e cose (finanziarie, risorse ambientali) quanto ridurre il carico fiscale e quanto finanziare le vere determinanti della crescita di lungo periodo, leggasi R&S di base e education? Il tema è stato dibattuto in Francia a proposito della Politica di riduzione degli oneri sociali via aumento dell’Iva (si veda Thomas Piketty, Libération, 18 novembre 2013).  Infatti è semplicemente errato affermare che la riduzione delle imposte si leghi alla crescita, al massimo si lega positivamente ad un aumento della domanda di beni e di lavoro nel breve periodo. Importante, ma ciò che serve è (anche)  mettere le basi per una crescita diversa e più verde nel medio lungo periodo: tasse ambientali e maggiori spese in R&S ed education fanno parte del pacchetto necessario per coniugare competitività e sostenibilità [Costantini e Mazzanti (2012, 2013)].

Solo una società ed un’economia basata fortemente su investimenti in R&S privata e pubblica – oltre il 3% di Lisbona – può tentare di essere più competitiva e più leggera, cioè efficiente nell’uso delle risorse ambientali. R&S che può essere in parte finanziata da maggiori oneri sull’uso di quelle risorse. Nel caso delle imprese private si tratterebbe di una sfida virtuosa da cogliere, ad esempio gestire a livello di settore/regione le maggiori risorse fiscali per interventi di detassazione del lavoro e degli investimenti in ricerca. Un ammontare di risorse e di spostamento fiscale pari all’1.5% del Pil (all’appello mancano però almeno 1.7% di punti di Pil in R&S) è ragionevolmente raggiungibile e potrebbe essere un piccolo shock che si protrae nel tempo con effetti diffusi.  Il rischio di lasciarsi andare al business as usual è un effetto della crisi che tende a restringere sempre più la nicchia di imprese innovatrici e competitive (Antonioli et al. (2013)).

Anche il 3% di R&S e oltre non discende ovviamente da nessun modello economico. Tuttavia, è ora di parlare anche di questo 3% e oltre, non solo di 3% deficit/Pil (o 0%!), assurdi e nocivi in (e forieri di) stagnazione, e de facto avversi all’investimento in R&S. Invertiamo la tendenza, e arriviamo almeno al 3% di spesa in R&S sul PIL, anche con il 3% di deficit/Pil. Almeno questo è possibile ed è un inizio.

  • Antonioli D.,Bianchi A., Mazzanti M., Montresor S.  Pini P., Innovation Strategies and Economic Crisis: Evidence from Firm-level Italian Data, Economia Politica, XXX, n. 1, pp.15-49
  • Costantini V. Mazzanti M. 2013, The Dynamics of Economic and Environmental Systems. Innovation, Policy and Competitiveness, Springer.
  • Costantini V. Mazzanti M. 2012, On the green side of trade competitiveness? Research Policy, February, vol.41.
  • Pini P. (2014), Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività. La Legge di Stabilità 2014-2016 programma la depressione, Quaderni di Rassegna Sindacale, in press