Con una riforma fiscale ambientale la Germania ha messo in sicurezza le pensioni

Cosa accadrebbe introducendo una carbon tax in Italia? Lo spiega il Governo

Un prezzo della CO2 a salire fino a 120€/ton garantirebbe un gettito di 16 mld di euro l’anno, da poter impiegare per finanziare uno sviluppo più sostenibile

[1 Febbraio 2022]

Insieme al nuovo Catalogo sui sussidi ambientali, il ministero della Transizione ecologica ha pubblicato anche i rapporti Ocse sulla Riforma fiscale ambientale – esito della richiesta dell’Italia nell’ambito del programma della Commissione Ue sulle riforme strutturali –, delineando un piano d’azione che pone particolare attenzione sull’opportunità di introdurre un carbon tax nel nostro Paese, come già avvenuto con successo in molti altri Stati.

Il rapporto giudica «fondamentale», per la riduzione delle emissioni climalteranti, introdurre un prezzo minimo per le emissioni di CO2 in Italia, uniforme per tutto il consumo energetico; partendo da un livello basso (40 euro per tonnellata di CO2 emessa) nel primo anno della riforma, per poi incrementare la quota di 10€/ton all’anno. Se l’iter partisse nel 2022, ad esempio, la carbon tax raggiungerebbe i 60 euro/ton nel 2024 e quota 120 nel 2030, quando sarebbe in grado di garantire un gettito pari a circa l’1% del Pil: ovvero oltre 16 miliardi di euro all’anno (riferendosi al Pil 2020), da potersi impiegare per fini coerenti con lo sviluppo sostenibile.

Il corretto utilizzo del gettito è infatti particolarmente importante per rendere equa e socialmente accettabile l’introduzione di una carbon tax. Lo stesso rapporto cita ad esempio l’opportunità di garantire «pagamenti in contanti alle famiglie a basso reddito attraverso, ad esempio, il nuovo assegno unico (assegno familiare)», e di utilizzare altri canali in modo da raggiungere anche le famiglie a basso reddito ma senza figli.

L’introduzione di una carbon tax comporterebbe comunque effetti diversi a seconda delle categorie produttive e sociali osservate. Ad esempio, il rapporto evidenzia che ai prezzi proposti la carbon tax avrebbe un effetto praticamente nullo sul trasporto stradale, in quanto già oggi le accise sui carburanti oscillano a un equivalente di 240 euro per ton di CO2; ecco perché sul fronte della mobilità sarebbe più intelligente una modifica – neutrale dal punto di vista del gettito – alle imposte legate all’acquisto di veicoli, per favorire il passaggio a quelli elettrici (investendo al contempo in un’adeguata infrastruttura di ricarica e nella penetrazione delle rinnovabili nella produzione di elettricità).

Anche il mondo della grande industria non vedrebbe particolari conseguenze da una carbon tax a 40€/ton, in quanto già oggi sistema di scambio di quote di emissione (Ets) dell’Ue veleggia attorno ai 90€/ton, ma anzi trarrebbe dei vantaggi da maggiori certezze circa l’evoluzione dei prezzi della CO2.

L’intervento sarebbe invece sicuramente più rilevante, già nell’immediato, per i piccoli emettitori industriali e gli utenti commerciali – che non rientrano all’interno dell’Eu-Ets –, accelerando ad esempio l’adozione di tecnologie di riscaldamento più efficienti (ed economiche nel medio termine).

Vale la pena tentare: l’esperienza già maturata dalla prima potenza industriale del continente – ovvero la Germania – in termini di riforma fiscale ecologica induce all’ottimismo. Dalla sua adozione nel 1999, si stima che la Germania abbia raccolto oltre 20 mld di euro in gettito aggiuntivo, che a loro volta hanno contribuito in modo determinante a stabilizzare il sistema pensionistico del Paese (i contributi pensionistici pagati da lavoratori e datori sarebbero cresciti dell’1,2% e l’importo delle pensioni sarebbe calato dell’1,5%, rispetto a quanto invece avvenuto).

Certo, ogni Paese fa storia a sé, per questo è necessario studiare bene l’impatto che avrebbe una carbon tax in Italia, senza rifuggire alle specificità del sistema Paese. Una carbon tax da 75 dollari per tonnellata di CO2, come quella proposta dal Fondo monetario internazionale, nel caso italiano non sarebbe ad esempio sufficiente – stima il rapporto – a ridurre quanto serve le emissioni di gas serra nostrane.

In compenso, potrebbe comunque garantire un gettito aggiuntivo pari allo 0,8% – da poter impiegare per rinforzare anche il nostro sistema pensionistico, come suggerisce il rapporto, ma anche per una sorta di “reddito di cittadinanza ambientale” oppure ancora per diminuire il cuneo fiscale sul lavoro –, a fronte di aumenti nelle commodity energetiche che si limiterebbero a una piccola frazione di quanto sperimentato col caro bollette dell’ultimo anno.

Il rapporto stima infatti che con 75 dollari per ogni tonnellata di CO2 emessa il prezzo del carbone aumenterebbe del 138%, quello del gas naturale del 34%, dell’elettricità del 31% e quello della benzina del 5%, rispetto ai livelli del 2020. Tanto o poco? Di certo la crisi delle bollette innescata dal gas, e dunque dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili, è assai più cara: come documenta l’Arera, nel corso del 2021 il prezzo spot del gas naturale al Ttf (il mercato di riferimento europeo per il gas naturale) è aumentato del 471% (da 21 a 120 €/MWh), un trend che si è riflesso nel prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso (Pun) che, nello stesso periodo, è aumentato di quasi il 400% (da 61 a 288 €/MWh). Una riforma fiscale ecologica dunque non converrebbe “solo” all’ambiente, ma anche al nostro portafogli.