Lo studio di due giovani ricercatori italiani (all’estero) su “Science of the total environment”

Clima, ecco come il coronavirus sta cambiando l’impronta di carbonio dell’Italia

Con il lockdown le emissioni di gas serra sono crollate di circa il 20%, ma contro la crisi climatica non ci sono buone notizie all’orizzonte: «Abbiamo solo chiuso il rubinetto, non lo abbiamo reso più efficiente»

[1 Giugno 2020]

Mentre in Italia la crisi sanitaria dovuta al coronavirus Sars-Cov-2 sta lentamente rientrando e il Paese si appresta a fare i conti con una nuova, durissima crisi economica, sottotraccia c’è un’altra crisi che non conosce sosta. Quella del clima. Eppure per oltre due mesi i cittadini e gran parte delle attività economiche si sono fermate: cos’è cambiato? Per provare a capirlo due brillanti ricercatori italiani – Dario Caro del dipartimento di Scienze ambientali della Aarhus University (Danimarca) e Benedetto Rugani dell’Istituto di scienze e tecnologie del Lussemburgo – hanno appena pubblicato lo studio Impact of COVID-19 outbreak measures of lockdown on the Italian Carbon Footprint sulla prestigiosa rivista Science of the total environment.

«Abbiamo quantificato innanzitutto l’impronta di carbonio (carbon footprint) relativa al ciclo di vita dei prodotti energetici e dell’elettricità consumati in Italia a partire dal 2015. Confrontando questa con i valori d’impronta stimati per la fase di lockdown, abbiamo quindi osservato una riduzione in media di circa il 20% di gas a effetto serra emessi in atmosfera», spiega Rugani. Lo studio riguarda tutto il settore energetico italiano, che a sua volta copre l’80% delle emissioni totali di CO2; la portata dunque è molto ampia, con dati che arrivano a livello di dettaglio provinciale.

«I nostri risultati – aggiunge Caro nel merito – evidenziano una maggiore riduzione dell’impronta di carbonio nelle regioni del nord Italia, che è stata anche l’area del paese maggiormente colpita dal virus. Questo fatto suggerisce che il settentrione, rappresentando la zona più industrializzata dello stivale, ha subito evidentemente un arresto decisivo dei consumi e delle attività economiche maggiormente responsabili per il rilascio di carbonio in atmosfera».

Il problema è legato alla natura del deciso calo nelle emissioni di CO2, che non è frutto di precise politiche industriali ma solo un fenomeno temporaneo mentre la crisi climatica si dipana nell’arco di molto tempo. E non appena la nostra economia si riprenderà tutto tornerà come prima (o peggio) in assenza di interventi. La crisi finanziaria di un decennio fa, purtroppo, insegna: nel 2009 le emissioni globali di CO2 calarono dell’1,44% lasciando ben sperare, ma nel 2010 crebbero del 5,13%, ovvero molto più velocemente rispetto al pre-crisi. E anche stavolta le premesse non sono buone.

Lo studio valuta infatti anche il trend dell’impronta di carbonio associata a tre possibili scenari di ripresa delle attività di consumo, basati sull’andamento del Pil atteso per il 2020. «Anche in uno scenario assolutamente pessimistico di ripresa economica (con un calo del Pil a fine 2020 maggiore del 9% rispetto al 2019) i livelli dell’impronta di carbonio medi per euro di prodotto interno lordo si attesterebbero – sottolinea Rugani – al di sopra di quelli registrati per gli anni dal 2015 al 2018. E questo ci dovrebbe far riflettere sulla debolezza del nostro sistema economico ed energetico in quanto a “efficienza ambientale”, in un momento così cruciale per la nostra società».

Se infatti l’impronta di carbonio del nostro Paese si attende quest’anno più bassa in ogni caso, anche nello scenario più ottimistico di riduzione del Pil, quel che senza interventi strutturali non migliora è l’intensità di carbonio (carbon intensity) misurata in termini di emissioni/Pil. E a scendere non sarà solo il numeratore, anzi.

«La carbon intensity misura in qualche modo l’efficienza produttiva in termini di emissioni – argomenta Caro – Abbiamo solo chiuso il rubinetto ma non lo abbiamo reso più efficiente, questo è il punto». La soluzione passa giocoforza verso un modo più sostenibile di produrre e consumare energia: «Se ci fosse un’inversione di rotta verso un consumo maggiore di energia rinnovabile già nel 2020, ecco che la carbon intensity potrebbe scendere sotto i livelli degli ultimi anni perché a quel punto cominceremmo ad aumentare il Pil senza emettere emissioni, e il rapporto emissioni/Pil diminuirebbe».

«C’è sempre più consapevolezza – conclude Caro – dell’importanza di operare una transizione verso sistemi di produzione e consumo ecocompatibili. Con questo studio forniamo alcune informazioni e stime numeriche in merito al ruolo e alle ripercussioni dell’economia italiana sui cambiamenti climatici nonché alle opportunità di mitigare quest’impatto investendo su un modello di produzione e consumo più sostenibile».