Acqua, elettricità, gas e rifiuti: a che punto siamo davvero?

Arera, i servizi pubblici italiani come leva per la transizione verso la sostenibilità

Si tratta di settori tra «i più rilevanti in termini di investimenti, i cui effetti possono rapidamente dispiegarsi sia in termini di occupazione che di miglioramento della vita»

[5 Luglio 2019]

È la prima volta che l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera) presenta con questo nuovo nome la propria Relazione annuale, articolata ieri ai Roma dal presidente Stefano Besseghini: dall’anno scorso l’Arera esercita infatti compiti di regolazione e controllo anche nel settore dei rifiuti, che abbracciano ora i settori dell’energia elettrica, del gas naturale, del teleriscaldamento, dei servizi idrici e – appunto – del ciclo dei rifiuti, urbani e assimilati. In quest’ampio spettro di servizi pubblici sta non solo la possibilità di rendere più vivibile e verde l’Italia, ma anche di guidarla sulla strada dello sviluppo sostenibile, fuori da una lunga fase di difficoltà economica: non a caso uno dei pilastri di questa IV consiliatura è dedicato alla “transizione verso la sostenibilità”. «Il settore dei servizi pubblici appare certamente uno dei più rilevanti in termini di investimenti – osserva l’Arera – i cui effetti possono rapidamente dispiegarsi sia in termini di occupazione che di miglioramento della vita dei nostri concittadini».

In questo contesto il ruolo dell’Arera – il cui valore risiede soprattutto nella sua indipendenza, pur nel quadro degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo, dal Parlamento dall’Ue – è quello di definizione di criteri e obiettivi chiari, anziché di specifiche regole di dettaglio, può consentire una regolazione più semplice (sebbene non semplicistica) e più flessibile, puntando sull’allineamento degli interessi e lasciando alle imprese la definizione di dettaglio dei servizi. I risultati di quest’approccio iniziano a vedersi, soprattutto in ambiti come quello idrico dove il ruolo dell’Autorità è più maturo.

Mentre il più generale tema della governance del settore idrico è all’attenzione del Parlamento con le proposte di legge n.52 (on. Daga) – che rischia però di paralizzare il settore – e n.773 (on. Braga), nei fatti quest’ambito sta già attraversando una profonda fase di mutamento. L’azione regolatoria indipendente ha spinto gli investimenti nel settore idrico a triplicarsi, dal miliardo di euro nel 2012 ai circa 3 del 2018, con un tasso di effettiva realizzazione degli interventi schizzato dal 50 all’80%; la spesa per investimenti nel quadriennio 2016-2019 ammonta a 11,9 miliardi di euro, di cui circa 9 provenienti da tariffa e il rimanente da fondi pubblici, mentre il costo procapite del servizio idrico italiano si è mantenuto il più basso (156,39€/anno) tra quelli dei Paesi considerati dall’International comparisons of water sector performance. «Grazie soprattutto alla regolamentazione tariffaria introdotta dall’Autorità – conferma Giovanni Valotti, il presidente di Utilitalia, la Federazione che riunisce circa 500 imprese dei servizi idrici, energetici e ambientali – la media degli investimenti per abitante ha registrato un deciso aumento, condizione essenziale per recuperare il gap infrastrutturale che il Paese sconta da decenni». Certo, rimangono comunque aperte ampie criticità: in primis perdite idriche medie al 42,4%, con circa la metà della risorsa idrica immessa nei sistemi di acquedotto che ancora viene dispersa dal Centro Italia in giù, ma la strada imboccata sembra quella giusta per poter rimediare attraverso nuovi investimenti.

Per quanto riguarda invece l’energia elettrica e il gas, la Relazione dell’Arera contribuisce a sfatare molti miti. Per il 97,5% dei clienti domestici italiani l’elettricità costa meno rispetto alla media europea, mentre sono più alti per le imprese (anche se ad esempio la prima potenza industriale del Continente, la Germania, di più), tranne paradossalmente per quelle ad alto consumo; nel settore gas invece i prezzi per i clienti domestici sono più alti della media Ue (tranne che per i basso consumanti), ma anche in questo caso i clienti industriali con alti consumi hanno prezzi più bassi della media Ue, mentre sono più alti per le piccole imprese. In questo contesto oltre a prezzi in grado di premiare maggiormente l’efficienza energetica sarebbe assai utile rivedere le fonti di approvvigionamento: ad oggi il 96,6% de gaso consumato in Italia è importato, per il 47,6% dalla Russia; e se «l’Autorità ritiene che le infrastrutture gas rappresenteranno anche nel medio termine un investimento rilevante e strategico», vede anche nella identificazione di gas rinnovabili una «possibile alternativa al gas fossile». È qui che si gioca la decisiva partita del biometano, frenata però a livello nazionale ad esempio sia dalla mancanza di impianti per la digestione anaerobica dei rifiuti – sono ad oggi in grado di gestire meno della metà della Forsu prodotta dai cittadini italiani – sia dall’assenza di un’adeguata normativa End of waste.

E questo ci porta al settore rifiuti, l’ultimo entrato nell’ambito regolatorio dell’Arera, che dal dicembre 2018 ha presentato i primi orientamenti: massima trasparenza; adeguamento infrastrutturale agli obiettivi imposti dalla normativa europea, attraverso l’introduzione di opportuni meccanismi tariffari, in particolare incentivando la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti e riducendo al contempo i conferimenti in discarica; definizione di un sistema tariffario che fornisca adeguati segnali di prezzo, anche in ossequio al principio comunitario pay as you throw.

Si tratta di un percorso assai interessante da seguire nella sua evoluzione: l’Italia è infatti uno dei primi paesi membri in cui la regolazione del settore è affidata ad un’Autorità indipendente, e di lavoro da fare ce n’è molto. Nel nostro Paese infatti  la raccolta differenziata è ferma al 55,5%, ben al di sotto dell’obiettivo del 65% previsto per il 2012, e soprattutto l’effettivo recupero di materia da rifiuti urbani è al 27%; va inoltre in discarica circa il 25% dei rifiuti urbani, percentuale ben più alta rispetto ai Paesi più performanti – in Germania la discarica è allo 0% per i rifiuti urbani, il riciclo al 48% e il recupero di energia al 31% (contro il 25%, 27% e 20% italiani) – In compenso si evidenza un costo nel nostro Paese (167 €/abitante nel 2014) maggiore di quello degli altri.

Nell’ambito degli incontri tecnici organizzati dagli uffici dell’Autorità con alcuni dei principali stakeholder del settore sono emerse una serie di criticità per la filiera rifiuti, ed è su queste che è prioritario agire: l’assenza di criteri uniformi per la differenziazione dei rifiuti a livello nazionale e la carente qualità del rifiuto differenziato raccolto; le carenze normative relative all’end of waste; l’assenza di un adeguato mercato di sbocco per frazioni riciclate; la chiusura dei mercati esteri per frazioni differenziate di bassa qualità; la difficoltà di gestione degli scarti da operazioni di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio, con mancanza di sbocchi per gli scarti di alcune frazioni merceologiche.

«La strada da compiere è ancora lunga – commenta Valotti in proposito – ma in questi primi mesi di attività di Arera si sono già registrati dei passi in avanti: l’obiettivo resta quello di una regolazione ispirata ai principi della sostenibilità e dell’economia circolare, per superare il paradosso che i cittadini siano costretti, proprio dove la qualità del servizio risulta peggiore, a sostenere costi maggiori».