Mali: la guerra contro gli schiavi per discendenza che si ribellano

Esperti Onu deplorano l'inerzia del governo e denunciano le autorità locali e religiose che perseguitano gli schiavi

[20 Luglio 2021]

Tomoya Obokata, relatore speciale Onu sulle forme contemporanee di schiavitù, e Alioune Tine, esperto indipendente dell’Onu sulla situazione dei diritti umani in Mali, hanno chiesto al fragile governo del Mali di «prevenire gli attacchi ai cosiddetti schiavi», facendo notare che «Questi incidenti sono in aumento, con il doppio dei feriti quest’anno rispetto al 2020».

Tine e Obokata hanno sottolineato che «Gli attacchi costanti e sistematici contro persone considerate “schiavi” sono inaccettabili e devono finire immediatamente.Tali attacchi feroci sono incompatibili con una società inclusiva e li condanniamo con la massima fermezza».

Il  4 luglio i residenti del villaggio di Makhadougou, nella regione orientale di Kayes, hanno tentato di impedire a persone che considerano schiavi di lavorare nei loro campi, ferendo con colpi di pistola e machete 12 persone, tra cui 3 donne non coinvolte nello scontro che sono state colpite da proiettili vaganti all’interno della loro casa.

A maggio, provenienti dal villaggio di Biramabougou, sempre nella regione di Kayes,  nella capitale del Mali Bamako erano arrivate un centinaio di vittime della “schiavitù” – tra le quali  18 donne e 53 bambini,  cacciate dalle autorità dal loro villaggio per aver rifiutato il loro status di “schiavo” dettato dalla tradizione. Come spiegò allora  Sira Diallo che aveva lasciato per la prima volta il suo villaggio senza la possibilità di tornarci: «Ci hanno cacciati! Ci hanno detto che eravamo loro schiavi, quindi di rispettare usi e costumi. Abbiamo rifiutato».

In diversi villaggi della regione di Kayes e anche in altre aree del Mali rurale, la società è divisa in caste con gli “schiavi” che occupano il posto più in basso. Si tratta di persone che sempre più rifiutano di svolgere gratuitamente i compiti obbligatori di “servizio” destinati alle persone “libere”.

Uno dei portavoce degli schiavi, Mady Sidibé spiega che «Siamo organizzati in modo tale da avere un’associazione chiamata Gambana. Gambana mira a dimostrare che tutti gli uomini sono uguali». Creato nel 2017 con il nome di Rassemblement malien pour la fraternité et le progrès, questo movimento combatte le conseguenze della schiavitù ma la parte più conservatrice e integralista della società maliana vede questo desiderio di emancipazione come una rivolta contro la tradizione e Aguibou Bouaré. presidente del Conseil national des droits de l’homme, denuncia: «Le persone vengono legate, le persone vengono picchiate. Li privano di tutto, dei loro campi coltivati, vietano loro di andare a commerciare, di andare nelle moschee, ci sono veramente tante violazioni, tanti abusi e tante privazioni».

Solo quest’anno, 62 persone – 57 uomini e cinque donne – sono rimaste ferite in violenti scontri nella regione di Kayes e a decine hanno dovuto abbandonare le loro proprie case. Gli esperti Onu fanno notare che «Quest’anno sono rimaste ferite il doppio delle persone – per lo più “schiavi per discendenza” – rispetto al 2020».

Il Mali ha vietato la schiavitù nel 1905, ma persiste un sistema di “esclavage d’ascendance”, in base al quale alcune persone hanno ancora lo  status di schiavi perché i loro antenati sarebbero stati ridotti in schiavitù dalle famiglie dei “padroni”. Tine e Obokata spiegano ancora che «Le persone nate in schiavitù lavorano senza essere retribuite e sono private dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Coloro che rifiutano la designazione di “schiavo” e tentano di difendere i propri diritti, così come le organizzazioni antischiavitù, vengono regolarmente attaccati violentemente dai leader tradizionali o religiosi e dai loro alleati, comprese, in alcuni casi, le autorità statali. Il drammatico aumento degli attacchi di quest’anno mostra l’evidente incapacità del governo di proteggere la sua gente, specialmente coloro che già soffrono maggiormente di discriminazioni e violenze».

In una dichiarazione rilasciata nel settembre 2020, Obokata e Tine avevano già condannato questi «atti barbari e criminali», invitando il Mali a porre fine alla schiavitù una volta per tutte de chiedendo «un’indagine rapida, trasparente, imparziale e approfondita» sugli attacchi agli schiavi nella regione di Kayes.

«E’ profondamente preoccupante che nessuno sia stato perseguito in relazione agli attacchi dell’anno scorso . dicono ora i due esperti – L’incapacità del governo di ritenere responsabili gli autori della schiavitù invia un segnale scioccante e inquietante. Anche i leader tradizionali e religiosi che sostengono questi attacchi violenti devono rispondere delle loro azioni».

Per questo, hanno rinnovato la loro richiesta al Mali di «Approvare urgentemente una legge che criminalizzi specificamente la schiavitù. Cosa altrettanto importante, è necessario un cambiamento di atteggiamento in tutta la società maliana. E’ essenziale lasciarsi alle spalle l’eredità della schiavitù di discendenza e riconoscere che tutti i maliani possono avvalersi di tutti i diritti e le libertà sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Carta africana dei diritti dell’uomo. Perché il Mali possa progredire, bisogna riconoscere che tutti i maliani – come tutti gli altri su questo pianeta – possono aspettarsi determinati diritti e richiederli semplicemente perché sono esseri umani. Non dovrebbero esserci discriminazioni basate su razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche o di altro tipo, origine nazionale o sociale, proprietà o nascita».