Riceviamo e pubblichiamo

Apuane, le cave salvate dal 58bis ricorrono al Tar. Legambiente: «Vogliono il Far West»

Per il Cigno verde si tratta di «un’onta indelebile sull’imprenditoria lapidea locale», che rivendica «il diritto di scavare a proprio piacimento, ben al di fuori dei limiti previsti dal piano di coltivazione»

[2 Aprile 2019]

Le ripetute e roboanti esternazioni del presidente di Confindustria Massa/Livorno, Erich Lucchetti, hanno raggiunto nelle ultime settimane dei livelli a dir poco parossistici. Purtroppo l’atteggiamento non è isolato, ma largamente diffuso nella classe imprenditoriale del settore lapideo, come dimostra il ricorso contro l’art. 58 bis della LR 54/2018, presentato congiuntamente al Tar da Confindustria e da ben 27 cave di Carrara.

Affinché tutti i cittadini comprendano appieno il livello di temerarietà raggiunto dagli imprenditori dell’escavazione, entriamo meglio nel merito della questione.

Imprenditoria ingrata: le dai il dito e ti prendono il braccio

A seguito dei controlli è emersa una prassi amministrativa sostanzialmente contra legem: le cave che avevano scavato al di fuori del perimetro autorizzato dal piano d’escavazione venivano sanate a posteriori dal Comune, con una sorta di variante compensativa. Il parere meritoriamente rilasciato dall’Avvocatura regionale ha chiarito che tale prassi era ed è inammissibile: in base all’art. 21 comma 3 e all’art. 23 comma 1 della LR 35/2015, infatti, lo scavo di oltre 1000 m3 al di fuori del perimetro autorizzato comporta la decadenza dell’autorizzazione. Senza se e senza ma.

Temendo le gravi conseguenze occupazionali che sarebbero derivate dalla chiusura delle molte cave inadempienti, la Regione ha poi emanato la LR 54/2018 (eloquentemente conosciuta sul territorio come leggina salva cave) che, introducendo l’art. 58 bis, ha evitato la decadenza dell’autorizzazione prescrivendo la presentazione di un piano di ripristino ambientale e, fino alla sua attuazione, la sospensione dell’estrazione.

Per tutta risposta, gli imprenditori, anziché ringraziare la Regione per aver varato un dispositivo emergenziale a loro vantaggio, hanno avanzato al Tar un ricorso palesemente pretestuoso, sostenendo che per perimetro autorizzato debba intendersi l’intera area nella disponibilità della cava. Rivendicando pertanto il diritto di scavare a proprio piacimento, ben al di fuori dei limiti previsti dal piano di coltivazione.

Per comprendere la mostruosità giuridica di tale pretesa, rimandiamo all’attenta lettura della figura 1, a puro scopo esemplificativo.

Agli imprenditori non basta il Far West, vogliono anche lo sceriffo complice

Nel ricorso al Tar, gli imprenditori non si limitano a rimpiangere i bei tempi andati, quando i comuni sanavano a posteriori le loro inadempienze, ma si atteggiano a vittime di un sopruso, lamentando il fatto che, con l’art. 58 bis, sarebbe stato tradito l’affidamento fiduciario, nella prassi fino ad ora sostanzialmente contemplato.

I ricorrenti, cioè, constatata la tiepida condotta di certi comuni che chiudevano un occhio, si sarebbero convinti della piena liceità dei loro sconfinamenti. Come se l’automobilista, reiteratamente non sanzionato per essere passato col rosso, pretendesse di averne acquisito il diritto e, una volta multato, ricorresse al giudice perché non ne capisce candidamente la ragione.
Analogamente, nel ricorso al Tar si contesta la disposizione dell’art. 58 bis che impone ai comuni di adeguare, ove necessario, le autorizzazioni rilasciate, conformandole al progetto di coltivazione autorizzato. Ribadire un’ovvietà, e cioè che si può scavare solo entro il perimetro autorizzato nel piano di coltivazione, non sarebbe, a loro dire, un semplice richiamo alla legalità, ma una modifica restrittiva dell’autorizzazione già rilasciata.

Confindustria contesta infine la sproporzione della sanzione perché le difformità di 1.000 m3 sarebbero “irrilevanti” e facilmente superabili senza accorgersene, date le note “tolleranze” delle macchine da taglio! Come se si potesse scavare un volume pari a un cubo di 10 m di lato, che richiede qualche mese di lavoro, senza rendersene conto! La spudoratezza dell’argomentazione è poi ancor più evidente se si considera che è mossa da aziende che hanno scavato in difformità volumi ben maggiori (da 10.000 a 70.000 m3).

A dispetto delle argomentazioni capziose dei loro avvocati (infrazioni procedurali, eccesso di potere, carenza di motivazione, violazione dei principi di affidamento e di certezza del diritto, illogicità manifesta e, addirittura, incostituzionalità), il senso delle pretese addotte dal ricorso è chiarissimo: rivogliamo il Far West, quando facevamo i nostri comodi; l’art. 58 bis, mettendo fine a tutto ciò, è un sopruso che viola i nostri diritti, acquisiti sul campo.

Se non comportasse la perdita del posto di lavoro dei cavatori, argomento invece che ci è molto caro, verrebbe proprio da chiedere alla Regione il ritiro del 58 bis, con conseguente decadenza delle autorizzazioni e chiusura definitiva delle cave coinvolte.

Auspichiamo pertanto che il Tar respinga per manifesta infondatezza l’ingrato ricorso di Confindustria e delle 27 cave carraresi che, comunque, per le pretese evocate, resterà agli annali come un’onta indelebile sull’imprenditoria lapidea locale.
di Legambiente Toscana