L’impatto delle alternative vegetali alla carne su bestiame e gas serra è scarso

Due studi Usa dimostrano che l'aumento della domanda di plant-based meat porta solo a un calo dell'1,2% nella produzione di carne macinata, lo 0,15% in meno di bestiame Usa

[25 Febbraio 2022]

Secondo lo studio “Impact of plant-based meat alternatives on cattle inventories and greenhouse gas emissions”, pubblicato su Environmental Research Letters da Jayson Lusk (Purdue University), Dan Blaustein-Rejto, Saloni Shah (The Breakthrough Institute – Berkeley) e Glynn Tonsor (Kansas State University),  le nuove alternative alla carne a base vegetale (plant-based meat PBM) che puntano a imitare il gusto e la consistenza della carne bovina potrebbero avere impatti economici, ambientali e sul benessere degli animali significativi solo se sostituiscono le carni tradizionali di origine animale e riducono la produzione di bestiame. Ma, avvertono i ricercatori statunitensi, «Il fatto che le alternative PBM possano raggiungere questi obiettivi dipende dalla misura in cui i consumatori sono disposti a sostituire le alternative PBM, dalla struttura dell’industria della carne e dalle interconnessioni dell’industria del bestiame con le altre parti dell’economia».

Lusk del Department of agricultural economics della Purdue University, sottolinea che «Come indicato, i risultati della modellazione sono in parte guidati dall’elasticità incrociata della domanda relativamente bassa tra le alternative di carne a base vegetale e la carne tradizionale che abbiamo riscontrato in studi precedenti, basati principalmente su sondaggi. Mi sono appena imbattuto in questo novo studio (“Meet the meatless: Demand for new generation plant-based meat alternatives”, ndr) di Shuoli Zhao, Lingxiao Wang, Wuyang Hu e Yuqing Zheng sul Journal of Economic Perspectives and Policy che stima queste elasticità incrociate di prezzo utilizzando i dati dello scanner dei negozi di alimentari basati su storie di acquisto effettive. Scoprono, sorprendentemente, che la carne a base vegetale e quella tradizionale sono complementi della domanda piuttosto che sostituti. Ciò significherebbe che un calo dei prezzi delle alternative alla carne di origine vegetale comporterebbe un aumento della quantità di carne bovina richiesta! (nota: l’effetto stimato è piccolo: una riduzione dell’1% dei prezzi a base vegetale comporterebbe un aumento dello 0,003% della domanda di carne bovina). Scoprono che solo il pollo è un sostituto della domanda per le alternative di carne a base vegetale. Così, lo studio di Zhao et al. il documento rafforza la nostra scoperta secondo la quale  è probabile che una riduzione dei prezzi delle alternative alla carne di origine vegetale abbia un impatto molto ridotto sulla consistenza del bestiame negli Stati Uniti, almeno in base alle preferenze attuali e all’attuale struttura del mercato».

Eppure, ai consumatori che si aggirano tra gli scaffali dei supermercati arriva il messaggio che le alternative alla carne – ormai tanto numerose quanto i prodotti a base di carne vera – che sono solitamente più costose, ridurranno tangibilmente le emissioni di gas serra e gioveranno al pianeta.  Il nuovo studio del team di Lusk  rivela che queste speranze potrebbero essere eccessive e dimostra anche che se i costi della alternative PBM diminuissero e più americani iniziassero a consumarne di più, questo avrebbe un impatto trascurabile sugli allevamenti intensivi di carne bovina e sulle loro elevate emissioni di gas serra.

Al Breakthrough Institute sostengono che «Per comprendere i benefici climatici del cambiamento alimentare, non è sufficiente guardare semplicemente ai cambiamenti in ciò che le persone mangiano. Dobbiamo anche esaminare come questi cambiamenti influenzino la produzione effettiva di diversi tipi di alimenti. In questo caso, l’attenzione si è concentrata sulla carne bovina, la carne a più alta intensità di emissioni».

In particolare, i ricercatori si sono concentrati sulla sostituzione con proteine ​​vegetali della carne macinata, che sono quello che le carni alternative imitano più comunemente per produrre cibi popolari come gli hamburger e hanno realizzato un modello economico che collegasse la produzione di carne bovina al suo consumo negli Usa  e hanno esaminato come sarebbe cambiato se il prezzo delle PBM fosse diminuito del 10% o se la domanda di queste alternative carni aumentasse nella stessa quantità. Hanno così calcolato che, in entrambi i casi, questo comporterebbe un aumento di circa il 23% del consumo di alternative vegetali alla carne, cifra che ci si aspetterebbe di vedere riflessa in una minore quantità di carne bovina consumata e prodotta.

Invece, il loro modello ha mostrato un effetto sorprendentemente limitato: in realtà l’aumento della domanda di alternative PBM  determinerebbe solo un calo dell’1,2% nella produzione di carne macinata, che equivale a un minuscolo calo dello 0,15% nella produzione di bestiame negli Usa. Nel complesso, questo equivale a una modesta riduzione dello 0,34% delle emissioni di gas serra Usa causate dalla carne bovina, che sale a solo l’1,14% se si tiene conto delle emissioni risparmiate dalla riduzione del cambiamento nell’uso del suolo.

In sintesi, i ricercatori dicono che «Il bestiame e le emissioni diminuiscono di ordini di grandezza inferiori alle variazioni dei prezzi delle PBM».  E’ interessante notare che i ricercatori calcolano che «Un calo simile del numero di capi di bestiame potrebbe essere ottenuto applicando una tassa sul bestiame dell’1% negli Stati Uniti».

Le ragioni di questo effetto minimo derivano dalla complicata interazione tra consumo e produzione, che smentisce una convinzione diffusa che gli appetiti dei consumatori guidino direttamente il mercato. Insomma, non è proprio del tutto vero che quando facciamo la spesa votiamo e che singoli gesti dei consumatori, messi insieme, modifichino le politiche produttive e di consumo. Perchè in un mondo globalizzato anche i produttori di carne hanno alternative disponibili e non certo più sostenibili.

Lo studio si è opportunamente concentrato sulla sostituzione della carne macinata perché costituisce la quota maggiore dei sostituti della carne bovina a base vegetale, ma questa comprende solo una quota della produzione di carne bovina, nel suo complesso. Inoltre, anche se la domanda “carne tritata” bovina diminuisce, questo non si tradurrà necessariamente in un minor numero di animali allevati: quelle mucche potrebbero semplicemente essere dirottate verso altri flussi di produzione, come per fare bistecche. Inoltre, viene esportato circa il 10% della carne bovina statunitense. Quindi, se il consumo di carne bovina locale diminuisce, resta l’opzione di esportare di più in un pianeta dove il consumo di carne è in crescita, lasciando il numero di bovini relativamente immune dal mutevole consumo nazionale statunitense.

I ricercatori fanno notare che «La complessità intrinseca e il dinamismo dei mercati rivelano perché è importante esplorare il cambiamento dietetico attraverso una lente economica: può catturare effetti che non sono sempre immediatamente evidenti».

Il nuovo studio pone un forte interrogativo sul potere delle alternative alle carni a base vegetale di portare a un vero cambiamento. Ma i ricercatori dicono che «Ci sono ragioni  per essere ottimisti, come gli sforzi in corso per aumentare la diversità delle carni alternative, che potrebbero conquistare più mercato. Il gusto e la consistenza delle carni alternative devono continuare a migliorare e devono essere sviluppati nuovi tipi di prodotti, come i sostituti di tagli interi di carne. Ma soprattutto, non dovremmo trattare le alternative alla carne come una panacea per i problemi ambientali dell’industria della carne. Invece, sono uno strumento tra i tanti per mitigare i danni dell’allevamento industriale, come ridurre le emissioni di metano del bestiame e gestire meglio i pascoli per stoccare più carbonio. Le riduzioni del prezzo delle PBM da sole probabilmente non avranno un impatto dirompente sulla produzione di bestiame negli Stati Uniti».