Rapporto Censis: gli italiani sotto stress post traumatico, senza futuro, che vivono con furore e sognano l’uomo forte

Una società italiana spappolata, impaurita, piena di contraddizioni e senza classe dirigente

[6 Dicembre 2019]

Secondo il 53esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, «il furore di vivere degli italiani ha vinto su tutto. Sfuggiti a fatica al mulinello della crisi, adesso l’incertezza è lo stato d’animo con cui il 69% degli italiani guarda al futuro, mentre il 17% è pessimista e solo il 14% si dice ottimista».

E’ il ritratto di un Paese vecchio, fragile, impaurito e che non sa dove andare. E il Censis dice che siamo arrivati a questo punto perché «gli italiani avevano dovuto prima metabolizzare la rarefazione della rete di protezione di un sistema di welfare pubblico in crisi di sostenibilità finanziaria, destinando risorse crescenti a strumenti privati di autotutela e introiettando l’ansia del dover fare da soli rispetto a bisogni non più coperti come in passato. Poi avevano dovuto fare i conti con la rottura dell’ascensore sociale, assumendo su di sé anche l’ansia provocata dal rischio di un possibile declassamento sociale. Anche perché la nuova occupazione creata negli ultimi anni è stata segnata da un andamento negativo di retribuzioni e redditi. Oggi il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale è bloccata. Il 63% degli operai crede che in futuro resterà fermo nella condizione socio-economica attuale, perché è difficile salire nella scala sociale. Il 64% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme invece la scivolata in basso. Infine, gli italiani hanno dovuto rinunciare perfino ai due pilastri storici della sicurezza familiare, il mattone e i Bot, di fronte a un mercato immobiliare senza più le garanzie di rivalutazione di una volta e a titoli di Stato dai rendimenti infinitesimali».

Una situazione ottimale per una Sinistra socialista – se esistesse ancora – ma anche per la destra populista, che è viva e vegeta, spregiudicata e in salute e alla quale – a quanto pare – buona parte dell’opinione pubblica italiana non addebita una crisi devastante che pure porta la sua firma nel governo del Paese per decenni.

La crisi del mattone e del Bot  – della rendita – che colpisce una classe media impoverita che si era gettata anima e corpo nelle accoglienti e materne braccia interclassiste della Democrazia Cristiana e che oggi, solo meno di 30 anni e un mondo dopo, ha fatto dell’estremismo parolaio e dell’invidia sociale la sua bandiera esibita. Il Censis spiega che «è cambiata la percezione sociale della proprietà immobiliare, considerata un costo più che un investimento. Dal 2011 la ricchezza immobiliare delle famiglie ha subito una decurtazione del 12,6% in termini reali. E il 61% degli italiani non comprerebbe più i Bot, visti i rendimenti microscopici. Venuti meno i pilastri del modello tradizionale di sviluppo, agli italiani non è arrivata però l’offerta di percorrere insieme nuovi sentieri di crescita per costruire il futuro. Anzi, secondo il 74% nei prossimi anni l’economia continuerà a oscillare tra mini-crescita e stagnazione, e il 26% è sicuro che è in arrivo una nuova recessione».

E’ tornata in auge l’arte di arrangiarsi, gli «stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro, in una solitaria difesa di se stessi, in assenza di grandi strategie da generali d’armata, di certo non avvistati all’orizzonte in questi anni». Gli italiani «Hanno cercato di porre una diga per arrestare la frana verso il basso. La loro reazione vitale ha generato una formidabile resilienza opportunistica, con l’attivazione di processi di difesa spontanei e molecolari degli interessi personali, a dispetto di proclami pubblici e decreti: il severo scrutinio nei consumi, il cash accumulato in chiave difensiva, anche il “nero” di sopravvivenza». Così si è affievolito il senso di comunità (o anche di classe, avrebbe detto quella che una volta era la sinistra italiana incarnata nel PCI) e la crisi – un violento cambiamento sociale guidato dall’iperliberismo globale – ha partorito «La società ansiosa di massa macerata dalla sfiducia», un popolo di consumatori segnato da un’ansia trasformatasi in furore di vivere, una società in bilico che non crolla. «Ma – dice il rapporto Censis – ora c’è un prezzo da pagare. Lo stress esistenziale, logorante perché riguarda il rapporto di ciascuno con il proprio futuro, si manifesta con sintomi evidenti in una sorta di sindrome da stress post-traumatico» che riguarda l’insicurezza sul lavoro o in famiglia, un Paese in costante crisi di nervi, come dimostra il consumo di ansiolitici e sedativi che dal 2015 al 2018 è aumentato del 23% e riguarda ormai 4 milioni di italiani/e contro gli 800.000 di tre anni fa.

Una società sfiduciata di sé stessa che non si fida più degli altri (il 75% degli italiani), nella quale aggressività e prepotenza sono state sdoganate dai talkshow televisivi, dalla politica degradata e degradante e dai social network: «il 49% ha subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni), il 44% si sente insicuro nelle vie che frequenta abitualmente, il 26% ha litigato con qualcuno per strada». Un popolo di arrabbiati che se la prende con i più deboli, invidia e disprezza i ricchi e i potenti, ma vorrebbe diventare come loro. E’ quello che il Censis definisce efficacemente «Il suicidio in diretta della politica italiana e le pulsioni antidemocratiche». La politica ridotta a marketing e urlo – e che è quasi scomparsa dai discorsi quotidiani tra la gente – ha generato una sfiducia nei Partiti che raggiunge il 76% e che sale all’81% in quella che un tempo era l’avanguardia politica del Paese: gli operai, e all’89% tra i disoccupati. Il 58% degli operai e il 55% dei disoccupati sono scontenti di come funziona la democrazia in Italia. Qui il baratro nel quale è sprofondata l’intera sinistra italiana – liberal, socialdemocratica o radicale che sia – è tanto evidente quanto profondo e riuscire ad uscirne sarà un’impresa improba, a meno di non cambiare tutto, a cominciare dai volti e dalle parole, ma soprattutto dall’agire concreto. Il Censis avverte che «Sono i segnali dello smottamento del consenso, che coinvolge soprattutto la parte bassa della scala sociale. E apre la strada a tensioni che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia, come l’attesa messianica dell’uomo forte che tutto risolve. Il 48% degli italiani oggi dichiara che ci vorrebbe un “uomo forte al potere” che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni (e il dato sale al 56% tra le persone con redditi bassi, al 62% tra i soggetti meno istruiti, al 67% tra gli operai)».

La crisi della ragione genera mostri, si sarebbe detto una volta, ma i mostri scorrazzano già senza avversari e sono accolti come liberatori, e invocati, da chi per primo ne dovrebbe aver paura e combatterli.

Ma e difficile che chi ha accettato questo slittamento verso la precarietà esistenziale, che chi ha fatto passare per modernità senza alternative un’economia nella quale ci sono più occupati ma con meno lavoro, riesca a rimettersi in sintonia con le classi subalterne italiane (che sembrano aver accettato la loro subalternità come destino). Un fenomeno che il Censis chiama «il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita» e spiega che «Rispetto al 2007, nel 2018 si contano 321.000 occupati in più: +1,4%. La tendenza è continuata anche quest’anno: +0,5% nei primi sei mesi del 2019. Il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione nasconde però alcune criticità. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007-2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno. Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni (un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai (il 79% del totale)».

Il problema è epocale perché culturale, figlio di una contro-rivoluzione culturale meticolosamente preparata e portata avanti dalla destra economico/politica e alla quale la sinistra italiana si è adattata come “segno dei tempi” fino ad assumerne tic, stili, attitudini, finendone snaturata per assimilazione e pagandone le colpe.  Gli italiani vivono «l’epica del disincanto» ed evitano i temi “difficili” come economia e politica estera per nutrirsi di sport, gossip e cronaca nera e rosa (a volte, e meglio, se in un unico mix), un (dis)interesse che «nasce dalle ceneri di un disincanto generalizzato: si guarda la politica in tv come fosse una fiction». Lo dimostra la continua espansione dell’area del non voto alle elezioni politiche (astenuti, schede bianche e nulle): aumenta il non voto alle elezioni: nel 1958 era all’’11,3%, nel 2018 era progressivamente salito fino al 29,4%. I politici occupano urlanti la televisione ma sono quelli che il 90% degli italiani vorrebbero vedere di meno nei programmi televisivi e «La domanda di politiche non trova un riscontro adeguato nell’attuale offerta politica. Al di fuori di retorica e propaganda, il lavoro e la disoccupazione preoccupano il 44% degli italiani (contro la media del 21% dei cittadini europei), il doppio rispetto all’immigrazione (22%), più di tre volte rispetto alle pensioni (12%), cinque volte di più della criminalità (9%) e dei problemi ambientali e climatici (8%)».

Quella disegnata dal Censis è un’Italia «rimpicciolita, invecchiata, con pochi giovani e pochissime nascite». E gli italiani che non vogliono stranieri non fanno figli per popolare “la Patria”, mentre anche gli immigrati se ne tornano a casa loro e fanno meno figli in un Paese che sembra aver rinunciato al futuro e dove i giovani sembrano una specie in via di estinzione o in migrazione all’estero: «in un decennio più di 400.000 cittadini italiani 18-39enni hanno abbandonato l’Italia, cui si sommano gli oltre 138.000 giovani con meno di 18 anni».

Il sud si spopola e il nord attrae nuovamente i giovani meridionali: «In quattro anni Bologna ha guadagnato 10.000 residenti, l’area milanese (3,2 milioni di abitanti) ha aumentato la sua popolazione dell’equivalente di una città come Siena (53.000 abitanti in più), cui si aggiungono i quasi 10.000 residenti in più della contigua provincia di Monza. Nell’area romana invece è crollato l’arrivo di stranieri (20.000 in meno tra il 2012 e il 2018) e sono diminuite le iscrizioni dal resto del Lazio e dalle altre regioni, a riprova dell’appannamento dell’appeal della capitale».

Dinamiche che incidono pesantemente sugli equilibri del sistema di welfare: «L’aspettativa di vita alla nascita nel 2018 è di 85,2 anni per le donne e 80,8 per gli uomini. Le previsioni al 2041 salgono rispettivamente a 88,1 e 83,9 anni. Oggi gli over 80 rappresentano già il 27,7% del totale degli over 64 e saranno il 32,4% nel 2041. Nonostante i miglioramenti complessivi dei livelli di salute della popolazione, l’80,1% degli over 64 è affetto da almeno una malattia cronica, il 56,9% da almeno due. Questi ultimi aumenteranno di 2,5 milioni di qui al 2041. Già oggi la quota di non autosufficienti è pari al 20,8% tra gli over 64, a fronte del 6,1% riferito alla popolazione complessiva, e supera il 40% tra gli ultraottantenni».

Un popolo di vecchi impauriti, poco assistiti, rancorosi in un Paese con pochi laureati e molti abbandoni scolastici e bassi livelli di competenze tra i giovani e gli adulti: «Il 52,1% dei 60-64enni si è fermato alla licenza media (a fronte del 31,6% medio nell’Unione europea). Ma anche tra i 25-39enni il 26,4% non ha conseguito un titolo di studio superiore (contro il 16,3% medio della Ue). Il 14,5% dei 18-24enni (quasi 600.000 persone) non possiede né il diploma, né la qualifica e non frequenta percorsi formativi. Nel 2018 ha partecipato ad attività di apprendimento permanente solo l’8,1% della popolazione 25-64enne (appena il 2% di chi possiede al massimo la licenza media). L’insufficiente comprensione della lingua inglese parlata riguarda il 64,3% degli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado. Il 68% degli adulti non possiede sufficienti conoscenze finanziarie di base».

Mentre il Pd continua ad affidarsi a un mitico “Partito dei sindaci”, dal rapporto Censis viene fuori che «della Pubblica amministrazione si fida solo il 29% degli italiani. Nell’Unione europea (valore medio: 51%) peggio di noi solo Grecia e Croazia. Erano 3.443.105 i procedimenti civili pendenti nel 2018. Di questi, il 16,1% era a rischio, ovvero procedimenti non risolti entro i termini di legge e per i quali gli interessati possono richiedere un risarcimento allo Stato. Alla fine del 2018 si quantificano in 26,9 miliardi di euro i debiti commerciali residui delle amministrazioni pubbliche fatturati nell’anno, scaduti e non pagati. Per il 60% dei commercialisti le loro aziende clienti subiscono ritardi nella riscossione di crediti dalla Pa».

La speranza viene dall’aggregazione dal basso – e le Sardine sono politicamente proprio questo – ma spesso si tratta di esperienze atomizzate, «al di fuori dai grandi progetti di mobilità sociale e dagli investimenti sul futuro professionale o familiare, ma dentro circuiti di costruzione identitaria legati alla coltivazione delle passioni». E così, in un paese segnato dall’egoismo «Gli italiani che prestano attività gratuite in associazioni di volontariato sono aumentati del 19,7% negli ultimi dieci anni, del 31,1% quelli che hanno visitato monumenti o siti archeologici, del 14% quelli che hanno visitato un museo. E sono 20,7 milioni le persone che praticano attività sportive».

Mentre Confindustria si attarda a parlare di costo e produttività del lavoro in un Paese che ha il costo del lavoro tra i più bassi tra i Paesi dell’Europa occidentale, «Nel 2018 in Italia sono stati installati 9.800 nuovi robot: meno della metà della Germania (26.700), ma quasi il doppio di Francia (5.800) e Spagna (5.300). Nel nostro Paese nell’industria sono stati installati 200 robot ogni 10.000 addetti, il doppio della media mondiale. Ma siamo in ritardo rispetto ai grandi protagonisti della produzione industriale, in particolare di autoveicoli, come Germania (338) e Giappone (327), e rispetto a economie con una manifattura altamente tecnologica, come Singapore (831) e Corea del Sud (774)».

La retorica sovranista non sembra invece aver sfondato per quanto riguarda le nostre aspettative sull’Europa: il 61% degli italiani dice no al ritorno alla lira (è favorevole il 24%), il 62% no all’uscita dall’Ue (è favorevole il 25%), il 49% è contrario alla riattivazione delle dogane alle frontiere interne dell’Ue, considerate un ostacolo alla libera circolazione delle merci e delle persone (è favorevole il 32%).

Il problema di Salvini e della Meloni è che sono consapevoli di parlare alla pancia di una corposa minoranza di italiani anti-europeisti (che visti i livelli di astensionismo fa ancora più massa elettorale), ma sanno bene che anche buona parte del loro elettorato è consapevole che il destino economico dell’Italia e in Europa, dove anche gli imprenditori leghisti lombardo-veneti-piemontesi esportano quasi 91 milioni di tonnellate di merci l’anno: il 60,9%, per un controvalore di 260 miliardi di euro, cioè il 56,3% del valore totale delle merci esportate. E poi ci sono gli immigrati dei quali Lega e Fratelli d’Italia preferiscono non parlare: «Gli italiani che risiedono negli altri 27 Paesi della Ue sono 2.107.359 (e i cittadini della Ue che vivono in Italia sono 1.583.169): sono aumentati del 12,2% negli ultimi tre anni e rappresentano il 41,2% degli oltre 5 milioni di italiani che vivono all’estero».

Gli Italiani sono passati rapidamente dall’innamoramento politico per Matteo Rezi a quello per Casaleggio/Grillo Di Maio e ora per Matteo s Salvini, tutti politici senza una “squadra” vera, senza un retroterra politico proprio o che lo hanno rottamato (Renzi la sinistra trattata come un ormai inutile ferrovecchio, Salvini l’indipendentismo padano anti-italiano e anti-europeo) ma il rapporto Censis conclude avvertendo che, finito il tempo della polemica contro la “casta” fatta anche da chi, come Salvini e la Meloni di quella casta politica fanno parte da quando andavano al liceo, «Non si potrà aggirare il problema di disporre di una classe dirigente in grado di tenere insieme la collettività individuando gli sforzi comuni da compiere e la direzione verso cui muoversi. Oggi solo il 18% degli italiani non ha fiducia nei medici di base e la percentuale scende al 9% nel caso degli specialisti. E in epoca di fake news diffuse nei social network solo il 21% non crede che soltanto i giornalisti professionisti dispongano delle doti indispensabili per offrire una corretta informazione. Ha ancora chance di raccogliere il giusto consenso il politico che pensa al futuro e alle giovani generazioni (secondo il 47% degli italiani), piuttosto che esclusivamente al consenso elettorale (3%)».