L’economia dell’odio cresce su internet grazie alla pubblicità (VIDEO)

Rimodellare la narrativa sulla migrazione: il caso della pubblicità etica

[23 Dicembre 2020]

A prima vista, l’industria della pubblicità globale non sembra un mondo che avrebbe bisogno di impegnarsi in un dialogo sui migranti e sui diritti umani. Ma la pubblicità alimenta di tutto, dai giornali ai giganti della tecnologia Google e Facebook che sono i principali canali dell’incitamento all’odio, della disinformazione e delle fake news contro i migranti e altre minoranze etniche, culturali e sessuali.

Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha sottolineato che «Oggi, la paura è il marchio più venduto al mondo oggi … Ottiene valutazioni. Prende voti. Genera clic».

Dai tabloid occidentali che demonizzano gli immigrati all’incitamento all’odio pubblicati su Facebook contro la minoranza Rohingya del Myanmar, l’odio esibito sulla stampa e online è diventato un problema globale che è letteralmente esploso con l’avvento dei social media.

Pia Oberoi, consulente senior sulla migrazione per l’United Nations  Human Rights Office di Bangkok, sottolinea che «Stiamo diventando sempre più consapevoli di come il torrente di messaggi di odio sulla migrazione stia portando direttamente a un aumento della violenza e degli abusi contro i migranti e, indirettamente, ad alcune politiche piuttosto orribili, mentre i leader politici cercano di rispondere a questo messaggio incolpando le vittime, di allontanare i migranti dai servizi sociali e sostenendo la loro detenzione a tempo indeterminato e la violenza alle frontiere. Presto è diventato chiaro che la situazione era insostenibile e la comunità internazionale si messa al tavolo per negoziare un quadro politico. Il risultato è stato il Global Compact delle Nazioni Unite per una migrazione sicura, ordinata e regolare, un accordo non legalmente vincolante adottato nel dicembre 2018».

Un accordo non ancora sottoscritto dall’Italia e che comprende un invito agli Stati a investire in standard di rendicontazione etica e pubblicità etica, e a «promuovere un discorso pubblico basato sull’evidenza per plasmare la percezione della migrazione».

Ma come ha sottolineato la Oberoi in un recente podcast del Conscious Advertising Network, «C’è stata  (e c’è) opposizione allo sforzo globale per garantire politiche migratorie basate sui diritti umani. L’uomo armato in Nuova Zelanda che ha ucciso 51 persone in un attacco del marzo 2019 contro fedeli musulmani in un paio di moschee a Christchurch, per esempio, aveva un messaggio inciso sulla canna dell’arma che ha usato per commettere il massacro: “Ecco il tuo Migration Compact”»

Allora qual è il modo migliore per riuscire a cambiare l’attuale narrativa tossica sulla migrazione? «Per me, la risposta deve essere più colloqui, più discussione, più collaborazione – risponde la Oberoi – Negli ultimi anni abbiamo cercato di capire un po’ meglio dove si collocano i diritti umani in questa conversazione e come coinvolgere le imprese in una discussione sui diritti umani che sia significativa per loro».

La strategia e il piano d’azione del Segretario generale dell’Onu sull’incitamento all’odio riconosce il ruolo importante dei media e delle imprese nell’affrontare il problema. Insieme a partner della società civile come Stop Funding Hate, UN Human Rights si è impegnata con il Conscious Advertising Network, una coalizione volontaria di brand, agenzie pubblicitarie e ONG dedite a cambiare consapevolmente il modo in cui opera la pubblicità e il contenuto degli annunci che viene prodotto.

Secondo Jake Dubbins, co-fondatore di Conscious Advertising Network, «Il mondo della pubblicità si sta rendendo conto del fatto che, che ci piaccia o no, finanziamo gran parte di Internet. Questo dialogo, questa continua comprensione reciproca tra il mondo dei diritti umani e il mondo della pubblicità è assolutamente necessario. In un mondo che è stato letteralmente invaso da modelli di business monetizzati che fanno soldi con l’odio e la disinformazione, sta a tutti noi assumerci la responsabilità, lavorare insieme e imparare davvero le lingue gli uni degli altri per cercare di risolvere meglio questi problemi».

L’idea che la pubblicità sia una questione di etica aziendale mainstream è venuta alla ribalta quest’anno grazie alla campagna #StopHateForProfit e alla decisione di alcune imprese indiane come Bajaj Auto e Parle-G di non fare pubblicità su piattaforme multimediali “tossiche”.

Dubbins ha anche fatto notare che «L’United Nations Human Rights Office ci ha davvero aperto gli occhi sull’importanza di un approccio al business basato sui diritti umani. La pubblicità finanzia in gran parte Internet e le narrazioni dalle quali siamo tutti influenzati quotidianamente. Troppo spesso parliamo di “brand safety” e dimentichiamo il nostro impatto sulla sicurezza e sui diritti degli esseri umani e delle società in cui viviamo».

La Oberoi e Dubbins, insieme a Jerry Daykin di GlaxoSmithKline Consumer Healthcare e Amir Malik di Accenture Interactive, hanno preso parte a una tavola rotonda su “Business with Purpose” alla 2020 Advertising Week per discutere  dell’”economia dell’odio”. Il panel ha discusso anche del fatto che «Ogni anno a livello globale vengono spesi 600 miliardi di dollari in pubblicità e che, anche se inavvertitamente, gli inserzionisti possono facilitare la diffusione di incitamenti all’odio e disinformazione».

La Oberoi ha concluso: «La nostra speranza è vedere un maggior numero di parti del settore privato prendere una posizione e fare “business case” contro l’odio e per pubblicità e spese etiche e basate sui diritti. E vorremmo vedere questa partnership realizzarsi in tutto il mondo. Ovunque ci siano mercati e clienti, ci preoccuperemo di come le comunità vulnerabili vengano prese di mira ed emarginate e, in molti casi, di come ciò venga involontariamente amplificato dagli introiti pubblicitari».

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