Riceviamo e pubblichiamo

Ci vogliono sei uomini forti per sollevare il cuore di una sola balena

La caccia alle balene ha dato prova di estrema crudeltà della civilizzazione umana, una cicatrice che torna a bruciare nel documentario Antarctic Traces della regista Michaela Grill

[6 Novembre 2020]

Settemila bottiglie per contenere il sangue di un’unica balena. Un intero vagone ferroviario per lunghezza. Tutte le candele della basilica di San Pietro, accese in un secolo, per esaurirne il grasso sottopelle. E solo un anno per ucciderne più di quarantamila esemplari al largo della South Georgia.

In quest’isola a nord dell’Antartico, tra il 1912 e il 1970, la caccia alle balene ha dato prova di estrema crudeltà della civilizzazione umana. Era la Whaling Industry.

Antartide ha una toponomastica per contrasto. Antartide è “l’opposto di Artide”, come se ciò bastasse a esaurirne il significato.

Tiranno è il primo che nomina, come tirannico è il nome ormai opacizzato del capodoglio: l’etimologia ne racconta non il valore in sé, la funzione in un’ottica di sfruttamento specificamente umano, parafrasabile in “fronte ricca di lubrificanti per orologi”. Olio. Candele. Stecche per reggiseni. Aste per parasole. Ambre grigie per profumi. Mangimi per polli. Fertilizzanti per colture. Cinture. Lucido per fotografie. Eccipienti per integratori di vitamine. Margarina.

Questo. Tutto questo valeva a prosciugare i Mari del Sud di cetacei grandi come cattedrali; sezionare, cuocere, essiccare e poi impilarne le parti in stoccaggi di materia muta che poco prima nuotava nei fondali blu di un’esistenza ignara.

La prima stazione baleniera, fondata da Carl A. Larsen, un esploratore norvegese, si chiamava Grytviken. A visitarla oggi è un cimitero di lamiere ossificate dalla ruggine, di larghi femori corrosi dal sale.

Poco lontano da qui si trova la tomba di Ernest Shackleton, un altro esploratore dell’estremo Sud. La sua spedizione a bordo dell’Endurance parlava dell’altra storia che si sarebbe potuto raccontare. Di uomini che si limitassero a scoprire senza l’ansia di conquistare; mossi dalla conoscenza della parte acquea del mondo come Ismael e non dalla depredazione come Achab.

In Antartide tutti i gesti sono una cicatrice, un’incisione esiziale. Eppure Michaela Grill si è inoltrata fin dentro quel gelo arido per raccogliere i resti di una storia che il tempo per litolisi sta consumando. Da qui nasce il suo capolavoro, Antarctic Traces.

L’Antartide è un morso di terra che raduna fantasmi, un deserto in cui o ci si perde o ci si ritrova. La cinepresa della regista austriaca lo restituisce per immagini immote, mentre una voce fuori campo arriva con l’inarrestabilità di una natura imperturbata nella sua indomabile inospitalità.

È la prima volta, mi racconta Michaela, che nei suoi lavori trova spazio un dialogo tra parole e immagini. Per urgenza di dire ciò che, nell’immaginario mistico sulle Rotte del Sud, era stato fin troppo omesso. Al punto che anche le uniche navi che oggi permettono un tour dell’isola preferiscono non toccarle neanche con lo sguardo, quelle baie abbandonate a se stesse, di natura inerme.

Natura morta è solo la traduzione approssimativa di quello che i pittori olandesi chiamavano “La vita silenziosa delle cose”.

In mezzo a queste banchise le vite sono state piuttosto silenziate. Del canto delle balene rimane la morna della perdita che fa riecheggiare nella parola “whale” il suo destino nefasto, “wail”, l’ultimo gemito.

Come quello che si può solo immaginare dopo che una bomba a frammentazione esplode in corpo lasciandolo in balia di un fuoco dentro che non c’è acqua che possa estinguere, e possono passare anche nove ore prima che l’urgenza di vivere lasci la presa e, a pancia in su in una schiuma cremisi, si arrenda al suo destino.

Le balene sono meravigliose creature gregarie, i loro circuiti neuronali si sono evoluti per creare legami a doppio nodo con i membri del clan. In ciascuno si protegge un linguaggio e una cultura propri, pazientemente insegnati per vie matrilineari. Il dolore per la perdita dell’altro è una ferita che lascia segni profondi, e di lutto spiegano “la loro voce antica come l’idioma del mare”.

Anche i balenieri irlandesi per non morire di nostalgia verso i propri cari innalzavano Sea Shanties, nella crepa di un cuore che come un ghiacciaio tremava per non spezzarsi.

Un vecchio canto baleniero in particolare, “Paddy and the Whale”, racconta di un marinaio che incauto finisce nella gola di una balena e anche lui, come un nuovo Giona, a un certo punto riaffiora.

La mitologia sulle balene ne ricalca l’animo indulgente e materno di chi dona una possibilità di rinascita, di ritrovato candore.

“La bianchezza della balena” è il titolo del 41° capitolo di Moby Dick. Il bianco opale è l’agente intensificatore nelle cose, ciò che più attira.

A guardare troppo il bianco però ci si abbaglia. Rimane l’afterimage, l’immagine residua. Un fosfene violaceo, come la balena di Emily Dickinson, nella sua riscrittura cromatica di Jonah.

Per tutto il documentario le balene sono l’a-priori semantico ma non appaiono mai, se non alla fine, in foto d’archivio, sgranate e terribili.

Per tutto il documentario a ingombrare rimane l’assenza.

Il mondo fantasma che – noi stessi – abbiamo annullato.

di Maria Chiara De Pasquale per greenreport.it