Quanto contano rifiuti, gas serra e rinnovabili per la salute degli italiani

Nel nuovo rapporto Osservasalute pubblicato oggi l’analisi dedicata all’ambiente, con qualche sorpresa

[19 Aprile 2018]

Se c’è un tema però che riguarda trasversalmente la salute di tutti, nel rapporto redatto da oltre duecentotrenta esperti coordinati dall’Istituto di Sanità pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è quello dell’ambiente. Per misurare il suo stato di salute – e dunque, indirettamente, il nostro – nel rapporto Osservasalute si dettagliano pochi ma indicativi parametri: rifiuti (produzione e gestione), gas serra (e dunque cambiamenti climatici).

Riguardo a questi ultimi si legge che il già conquistato calo del 31,4% di gas serra emessi dal 1990 al 2014 potrebbe «non garantire una riduzione nel tempo efficace dei valori di emissione assoluti e pro capite se le politiche condivise a livello locale e nazionale non vengano adottate, in particolare nel campo della ricerca e dello sviluppo di nuove fonti energetiche alternative e del loro corretto utilizzo di massa e diffusione capillare». Curiosamente però questi impianti spesso non sembrano ben accetti sul territorio, con oltre tre quarti delle opere contestate nel settore energetico che vede finire nel mirino delle contestazioni proprio le fonti rinnovabili (nonostante il 90% circa dei cittadini si dichiari favorevole alla loro diffusione). Un autogol alla salute di tutti.

Il rapporto Osservasalute aiuta a far chiarezza anche nell’ambito dei rifiuti, o meglio su come la loro gestione possa legarsi alla salute dei cittadini, anche se si sofferma pressoché integralmente sulla dimensione dei rifiuti urbani (che l’Italia ha prodotto per 30,1 milioni di tonnellate nel 2015) trascurando i rifiuti speciali (132,4 milioni di tonnellate). È utile notare come Osservasalute non parli mai di cancrovalorizzatori et similia. Avvalendosi di un confronto internazionale, gli estensori del rapporto notano anzi come nell’Ue (dati 2014) circa «il 28% dei rifiuti solidi urbani è stato smaltito in discarica, il 27% è stato incenerito, mentre il 28% è stato avviato a riciclaggio ed il 16% a compostaggio», mentre per l’Italia la discarica vale il 26,5% e l’incenerimento il 18,9%: un dato quest’ultimo che viene definito come «ancora al di sotto della media dei Paesi europei». Un dato da correggere dunque, perché è da scegliersi «l’incenerimento in via preferenziale rispetto al conferimento in discarica».

Con equanimità, il rapporto non condanna neanche le discariche, ma aiuta a metterle al loro posto – sempre più residuale – e precisa che dal punto di vista della salute è meglio una discarica grande a servizio di un’area geografica estesa che molte piccole, in quanto «le discariche di maggiori dimensioni sono spesso dotate di sistemi di pretrattamento dei rifiuti in entrata e si configurano, sempre di più, come strutture complesse dotate di impianti di recupero del biogas e di trattamento del percolato prodotto».

Stupisce in ogni caso osservare quanto sia stato rapido il declino numerico in Italia, frequentemente non percepito, di questi impianti: dalle 657 discariche presenti nel 2000 alle 149 (di cui 133 per i soli rifiuti solidi urbani) del 2015, mentre solo nell’ultimo anno gli inceneritori sono passati da 44 a 41.

I rifiuti continuiamo però a produrli, ed è così che i territori dove gli impianti per gestirli sono troppo pochi chiedono aiuto ai vicini: per quanto riguarda in particolare gli inceneritori Osservasalute ritiene  «necessario precisare che quote considerevoli di rifiuti prodotte nelle aree del Centro e del Sud ed Isole vengono trattate in impianti localizzati al Nord. Infatti, la Lombardia e l’Emilia Romagna ricevono nei propri contenitori, rispettivamente, circa 160 mila tonnellate e circa 140 mila tonnellate di rifiuti prodotti da Campania, Toscana, Lazio, Veneto, Lombardia e Abruzzo».

Come migliorare dunque? Tagliando la produzione di rifiuti nell’unico momento possibile, alla fonte, per poi puntare su riciclaggio e – nei casi in cui non è possibile recuperare niente – allo «smaltimento finale in condizioni di sicurezza per l’uomo e l’ambiente». A quanto pare però al momento l’Italia non sembra gestire bene nessuna delle due fasi.

Sul fronte della riduzione dei rifiuti, o meglio del disaccoppiamento fra gli indicatori economici e la produzione dei rifiuti, risulta «più che evidente che tale disaccoppiamento non sia avvenuto e solo la crisi economica e la riduzione dei consumi delle famiglie abbiano consentito la riduzione della produzione dei rifiuti e, conseguentemente, la riduzione dello smaltimento in discarica degli stessi».

Mentre per quanto riguarda la gestione dei rifiuti rimanenti è opportuno «che la chiusura delle discariche sia accompagnata dall’adozione delle adeguate procedure per la corretta gestione di tale processo, ma anche dall’applicazione dei piani di adeguamento previsti dalla normativa, nonché da modifiche sostanziali nell’organizzazione del sistema di gestione dei rifiuti. Tutto questo affinché si possa effettuare quel salto di qualità che appare necessario soprattutto nelle zone dove lo stato di emergenza è divenuto la normalità e la chiusura degli impianti ha, invece, accentuato lo stato critico fino ad arrivare all’emergenza sanitaria. Anche da un recente studio pubblicato dall’Ue emerge come l’Italia – conclude Osservasalute – sia stata collocata nel gruppo degli Stati membri che presentano i maggiori deficit, con carenze dovute a politiche deboli o inesistenti di prevenzione dei rifiuti, assenza di incentivi alle opzioni di gestione alternative al conferimento in discarica e inadeguatezza delle infrastrutture per il trattamento dei rifiuti».