Potremmo davvero avere solo 11 anni per salvare il mondo
Thomas Hale. Più nella crisi climatica predomineranno urgenti bisogni di sopravvivenza, più la finestra politica per prevenire ulteriori cambiamenti climatici si chiuderà
[6 Dicembre 2019]
“Eleven years to save the world” recita un cartello comune nei Fridays for Future climate strikes globali. In oltre 100 Paesi, milioni di persone, molte delle quali troppo giovani per votare, sono scese in strada per chiedere ai governi di aumentare radicalmente gli sforzi per combattere i cambiamenti climatici nel prossimo decennio.
Ma abbiamo davvero tempo fino al 2030 per evitare la catastrofe climatica? Pur sottolineando l’importanza dell’azione urgente, gli scienziati hanno cercato di mettere in guardia verso questo crudo messaggio. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) afferma che dobbiamo dimezzare le emissioni globali entro il 2030 per avere almeno una possibilità su due di limitare il riscaldamento a 1,5° C, l’obiettivo fissato dall’Accordo di Parigi del 2015.
Il mondo non “finirà” nel 2030. Ma se a quel punto non avremo un percorso di riduzione rapida delle emissioni, probabilmente supereremo il limite di 1,5° C intorno al 2040.
A quel tempo, i climate strikers che oggi sono per le strade oggi entreranno nella mezza età, formeranno le famiglie, andranno avanti con le loro carriere e sfideranno alle elezioni i loro irresponsabili predecessori. Quindi non possono semplicemente risolvere il problema allora?
Geofisicamente parlando, forse. Poiché l’anidride carbonica e altri gas serra rimangono nell’atmosfera per decenni o più, ciò che conta di più è lo stock totale di emissioni nel tempo. Ciò significa che un’azione lenta oggi potrebbe, in teoria, essere compensata da un’azione aggressiva in futuro. Di conseguenza, alcune compagnie petrolifere e del gas sono passate dal negare del tutto i cambiamenti climatici all’accettazione di passi incrementali come i modesti prezzi del carbonio.
Ma chiunque stia sostenendo un approccio incrementale – che stanno seguendo la maggior parte dei governi – sta facendo un’ipotesi azzardata non solo sui modelli climatici, ma sulla politica dei cambiamenti climatici a metà del XXI secolo. In collaborazione con Jeff Colgan alla Brown University e Jessica Green all’Università di Toronto, la mia ricerca sta esplorando come, mentre i cambiamenti climatici e la decarbonizzazione andranno avanti nei prossimi decenni, la politica climatica sarà sempre più esistenziale . Questo cambiamento sposterà l’attenzione dei governi dalla prevenzione alla reazione.
Ad oggi, la contestazione della politica climatica ricorda quella che gli scienziati politici chiamano “politica distributiva”. Politiche come le carbon tax o il dispiegamento di energie rinnovabili avvantaggiano alcuni settori economici e popolazioni e impongono costi ad altri. I gruppi di interesse che stanno per vincere o perdere a causa di questi cambiamenti sostengono le loro politiche preferite.
Ma mentre spingiamo il sistema climatico verso ulteriori estremi, i costi dei cambiamenti climatici diventeranno molto più intensi e diffusi. Non solo le piccole isole, ma intere regioni costiere saranno inondate. La siccità taglierà le risorse idriche vitali a centinaia di milioni di agricoltori di sussistenza e a quelli che alimentano le catene di approvvigionamento globali. Il caldo mortale renderà inabitabili intere regioni. In queste condizioni, la politica climatica non sarà solo una questione di “chi ottiene cosa, quando, come”, come ha affermato il politologo Henry Laswell. Piuttosto, la politica climatica diventerà una questione di chi riuscirà a sopravvivere.
Allo stesso tempo, l’avanzata della decarbonizzazione rappresenterà una minaccia esistenziale simile per imprese, lavoratori, regioni e regimi la cui sopravvivenza economica è legata ai combustibili fossili. Sono già sono state chiuse in tutto il mondo centinaia di centrali a carbone e miniere, portando dietro investimenti, posti di lavoro e pensioni. Per questo motivo, oggi una richiesta centrale dei manifestanti climatici è che i governi diano una “giusta transizione” ai lavoratori nei settori dipendenti dal carbone. Le compagnie petrolifere e del gas possono seguire la sorte del carbone, così come Paesi e regimi politici basati sullo sfruttamento di queste risorse. Quelli che sono riusciti a diversificare o incanalare le risorse in fondi sovrani possono adattarsi. Altri – crudelmente quelli che saranno meno in grado di gestirli – potrebbero scoprire che l’unica cosa peggiore della “maledizione delle risorse” è la maledizione della mancanza di risorse.
In altre parole, il progresso degli sforzi sia per il cambiamento climatico che per la decarbonizzazione non cambierà solo la distribuzione delle risorse; minaccerà l’esistenza stessa di ampie fasce globali dell’economia e della popolazione. Come possiamo aspettarci che reagiranno i leader politici a metà del secolo: i giovani che oggi chiedono azioni nelle strade?
Di fronte a urgenti bisogni di sopravvivenza, potrebbe essere sostanzialmente più difficile investire sforzi politici e risorse per prevenire ulteriori cambiamenti climatici riducendo le emissioni. Invece, i governi dovranno affrontare crescenti, e in alcuni casi schiaccianti, la pressione per limitare i danni che i cambiamenti climatici e la decarbonizzazione avranno causato a breve termine.
Immaginatevi di essere il sindaco di una città mediorientale nella quale nell’ultima settimana la temperatura notturna è stata di oltre 50° C. Spendereste il bilancio cittadino in auto elettriche salva-clima o in condizionatori d’aria che distruggono il clima?
In generale, ci sono quattro strategie che possiamo adottare per contrastare il cambiamento climatico. Possiamo mitigarlo riducendo le emissioni. Possiamo adattarci ad esso prendendo misure come la costruzione di dighe marine o lo sviluppo di colture resistenti alla siccità. Possiamo compensare coloro che sono colpiti dai suoi effetti per ridurre la sofferenza. Oppure possiamo, forse, sviluppare tecnologie di geoingegneria per limitare il cambiamento della temperatura o aspirare carbonio dall’atmosfera. Fino ad oggi ci siamo concentrati principalmente sulla mitigazione. Ma quando la politica climatica diventa esistenziale, gli incentivi politici possono spostarsi verso approcci più difensivi.
In effetti, stiamo già assistendo a una crescente enfasi su questo tipo di strategie. Quando i Paesi del mondo si impegnarono, nella UN Framework Convention on Climate Change del 1992, a “prevenire pericolosi cambiamenti del clima terrestre”, intendevano ridurre le emissioni. Da quel momento, le nazioni vulnerabili e le “comunità in prima linea” hanno spinto per inserire l’adattamento nell’agenda globale. Subiscono già i cambiamenti climatici, quindi, sostengono, non dobbiamo solo prevenire ma anche curare l’attuale danno.
Più di recente, i Paesi e le popolazioni più colpite hanno richiesto un risarcimento . Non solo non siamo riusciti a prevenire i cambiamenti climatici, sostengono, ma i suoi impatti sono già così grandi che non possiamo adattarci. Le isole più basse, per le quali persino un piccolo grado di cambiamento climatico è qualcosa di esistenziale, sono state forti sostenitrici delle cosiddette misure “loss and damage” nella politica climatica internazionale, chiedendo che coloro che hanno contribuito maggiormente ai cambiamenti climatici paghino le riparazioni. In futuro, aspettiamoci che queste richieste crescano.
E man mano che il cambiamento climatico procede, ciò che prima era impensabile potrebbe diventare ampiamente richiesto. Oggi, molti difensori del clima rifiutano le tecniche di geoingegneria (come costruire macchine per aspirare carbonio dall’aria o seminare nuvole per riflettere più luce solare nello spazio) come una distrazione non provata dagli sforzi di mitigazione. Ma se gli impatti dei cambiamenti climatici continuano ad accumularsi, i governi potrebbero vedere queste tecnologie come componenti vitali della sicurezza nazionale.
Tutte queste strategie saranno molto più costose e molto meno efficaci della mitigazione. Ma quando i climate strikers di oggi guarderanno i propri figli scendere in strada, potrebbero essere le uniche opzioni rimaste.
La buona notizia è che questi trend non sono inevitabili. Quanto più possiamo prevenire i cambiamenti climatici ora, assicurandoci anche che coloro che dipendono dai combustibili fossili non vengano lasciati indietro, tanto meno le politiche climatiche saranno esistenziali in futuro. In altre parole, l’urgenza di agire oggi è richiesta non solo dalla scienza climatica, ma anche dalla scienza politica. Avremo sicuramente a che fare con i cambiamenti climatici più a lungo dei prossimi 11 anni, ma potremmo avere solo il prossimo decennio per prevenirli.
di Thomas Hale
professore associato di politica pubblica (global public policy)
Blavatnik School of Government, University of Oxford
Questo articolo è stato pubblicato nel quarto numero della Oxford Government Review, pubblicato nel novembre 2019 dalla Blavatnik School of Government.