Muroni: «Chissà se il Governo che si definisce ambientalista coglierà questo allarme»

L’Italia rallenta ancora nella lotta alla crisi climatica, siamo trentesimi al mondo

Legambiente: «Il peggioramento in classifica conferma l’urgenza di una drastica inversione di rotta»

[9 Novembre 2021]

Nonostante la crisi climatica corra a velocità doppia in Italia rispetto alla media globale, il nostro Paese risulta sempre meno impegnato nell’affrontarla. Non bastano le parole di Mario Draghi o cambiare il nome al ministero dell’Ambiente, se le azioni non sono conseguenti; tanto che nel Climate change performance index 2022 lo Stivale scivola di altre tre posizioni, finendo quest’anno al 30esimo posto – su 60 Paesi indagati, dai quali arriva il 92% delle emissioni climalteranti globali – nella classifica dei Paesi per la lotta al surriscaldamento del clima.

La performance è stata misurata, come sempre, all’interno del rapporto annuale elaborato da Germanwatch, Can e New climate Institute, con la collaborazione di Legambiente per l’Italia.

Il pessimo posizionamento italiano è una conseguenza del rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili (34° posto della classifica specifica) e dei ritardi sul Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima approvato già vecchio a inizio 2020 – prevede un taglio delle emissioni entro il 2030 di appena il 37% rispetto al 1990, contro il -55% stabilito dall’Ue – e ancora non aggiornato dal ministro Cingolani.

«Il peggioramento in classifica dell’Italia – spiega per Legambiente Mauro Albrizio – ci conferma l’urgenza di una drastica inversione di rotta. Si deve aggiornare al più presto il Pniec per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l’obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030. Andando quindi ben oltre l’obiettivo del 51% previsto dal Pnrr e confermando il phase-out del carbone entro il 2025 senza ricorrere a nuove centrali a gas. L’Italia ha a disposizione ben 70 miliardi di euro, allocati dal Pnrr per la transizione ecologica, da investire per superare la crisi pandemica e fronteggiare l’emergenza climatica».

Si tratta di superare ritardi ormai cronicizzati, dato che è dal 2014 che nel nostro Paese le energie rinnovabili crescono col contagocce e le emissioni climalteranti sono praticamente stabili, escludendo il crollo eccezionale del 2020 – già abbondantemente in fase di recupero – legato alle restrizioni imposte dalla pandemia. Occorre realizzare che è l’inazione la scelta più costosa di fronte alla crisi climatica, non solo dal punto di vista ambientale ma anche sotto il profilo socioeconomico.

«Chissà se il Governo che si definisce ambientalista coglierà questo allarme, l’ennesimo che arriva durante la Cop26 – commenta la deputata di FacciamoEco Rossella Muroni – per prendere finalmente sul serio la necessità di adeguare il nostro Piano energia e clima ai nuovi target climatici europei e all’obiettivo di contenere entro un grado e mezzo il surriscaldamento globale. Urgenti anche semplificazioni reali per le rinnovabili, un phase-out programmato non solo dal carbone ma anche dalle trivellazioni, l’avvio del taglio dei sussidi fossili già dalla Legge di Bilancio e una fiscalità ambientale che penalizzi inquinamento e consumo di risorse e premi efficienza, sostenibilità e lavoro di qualità».

Ad oggi la crisi climatica procede spedita: se venissero mantenute tutte le promesse arrivate finora alla Cop26 il riscaldamento globale potrebbe fermarsi a fine secolo a +1,8°C rispetto ai livelli preindustriali, ma gli impegni di fatto formalizzati dai Paesi fissano l’orizzonte a un catastrofico +2,7°C.

Difficile chiedere ai grandi emettitori come la Cina di fare di più, se in primis i Paesi con maggiore Pil procapite e responsabilità storica delle emissioni – l’Ue è al secondo posto a livello globale, l’Italia 19esima – non fanno la propria parte.

Non a caso il Climate change performance index (Ccpi) elabora una prospettiva complessa, prendendo come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030: si basa per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo sia delle rinnovabili che dell’efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica non sono state attribuite, in quanto nessuno dei paesi ha raggiunto la performance necessaria per fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5°C.  In testa alla classifica troviamo i Paesi scandinavi che guidano la corsa verso zero emissioni. Danimarca, Svezia e Norvegia si posizionano dal quarto al sesto posto, grazie soprattutto al loro grande impegno per lo sviluppo delle rinnovabili. In fondo alla classifica troviamo, invece, Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Canada, Australia e Russia.

Più nel dettaglio la Cina, che attualmente è il maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola di quattro posizioni al 37° posto, non lontana dal 30esimo posto italiano. Nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le sue emissioni continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del suo sistema produttivo.

Ancora più indietro si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale, che troviamo al 55° posto. Un passo in avanti di sei pozioni rispetto allo scorso anno, grazie alla nuova politica climatica ed energetica avviata dall’Amministrazione Biden e che però deve iniziare ancora a dare i suoi primi risultati.

Tra gli altri Paesi del G20, solo Regno Unito, India, Germania e Francia si posizionano nella parte alta della classifica. Anche l’Unione europea scivola di sei posizioni al 22° posto, soprattutto per la pessima performance di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia, che si posizionano in fondo alla classifica.