L’impronta idrica dei rifugiati e le conseguenze per i Paesi più aridi che li ospitano

Uno studio del Politecnico di Torino e University of Notre Dame che supporta il miglioramento delle politiche dell’UNHCR

[24 Maggio 2023]

Nel mondo, il numero di rifugiati è quasi raddoppiato tra il 2005 e il 2016, passando da 12,1 a 23,1 milioni – l’aumento più consistente mai registrato. Milioni di persone sfollate a causa dei conflitti (Palestina, Siria, Iraq e Afghanistan in particolare) hanno trovato rifugio in Paesi, spesso confinanti, situati in zone climatiche aride e semi-aride, in molti casi caratterizzate da condizioni di elevata scarsità idrica. Fino ad oggi non era chiaro quale fosse l’entità della pressione dei rifugiati e quanta di essa sia dovuta alla domanda di cibo di queste popolazioni in fuga sui paesi ospitanti, lo studio “Food demand displaced by global refugee migration influences water use in already water stressed countries”, pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori dell’University of Notre Dame guidato da Leonardo Bertassello e Marc Muller e da Marta Tuninetti del WatertoFood Lab Politecnico di Torino – DIATI ha cercato di  rispondere a questa domanda, fornendo anche un quadro attendibile supportato da dati oggettivi, e ha sviluppato un’analisi innovativa che quantifica le implicazioni dei flussi migratori per le risorse idriche e le possibili soluzioni per preservarle.

Al Politecnico di Torino dicono che i risultati dello studio dimostrano che «L’aumento della domanda di acqua – pari a 31 km3 nel 2016 – si è concentrato principalmente in alcuni Paesi tra cui Pakistan, Iran, Turchia, Libano e Giordania, ovvero in zone geografiche caratterizzate da livelli di scarsità d’acqua simili a quelli dei Paesi di provenienza dei rifugiati». Secondo lo studio, «I Paesi ospitanti tendono tipicamente ad avere sistemi produttivi più efficienti dal punto di vista idrico, diete caratterizzate da prodotti più idro-esigenti (ovvero con maggiore impronta idrica) e sistemi alimentari principalmente locali e poco dipendenti dal commercio internazionale».

Gli autori spiegano che «In generale, lo stress idrico associato all’aumento del consumo di cibo non è risultato essere un problema importante nella stragrande maggioranza dei Paesi di destinazione dei rifugiati, compresa l’Unione Europea, ma è risultato invece avere profonde implicazioni soltanto per alcuni Paesi. Ad esempio, si è scoperto che i movimenti di rifugiati hanno contribuito all’aumento dello stress idrico in Giordania fino al 45-75%».

La Tuninetti evidenzia che «Sebbene le implicazioni appaiano minime nella maggior parte dei Paesi il nostro studio suggerisce che esse possono dimostrarsi gravi nei Paesi che stanno già affrontando un elevato stress idrico o dove lo stress aumenterà in relazione agli effetti del cambiamento climatico. Questi paesi devono essere monitorati con particolare attenzione poiché tendono attualmente a fare affidamento prevalentemente sulle risorse idriche locali per la produzione alimentare. Il commercio globale potrebbe diventare in questo caso uno strumento per alleviare il potenziale stress idrico a cui alcuni Paesi sono sottoposti quando sono oggetto di importanti flussi di rifugiati e ridurre al tempo stesso la vulnerabilità dei sistemi alimentari locali a crisi idriche».

I ricercatori statunitensi e italiani concludono: «I risultati mostrati nello studio forniscono un quadro chiaro ed esaustivo delle attuali implicazioni della migrazione dei rifugiati per le risorse idriche e offrono un supporto quantitativo in grado di orientare ed ottimizzare le politiche di asilo e reinsediamento dei rifugiati sviluppate da UNHCR (UN Refugee Agency)».