L’esodo forzato dei nativi americani li ha resi più vulnerabili ai cambiamenti climatici

Gli effetti dell'espropriazione delle terre e della migrazione forzata sui popoli indigeni del Nord America

[2 Novembre 2021]

Lo studio “Effects of land dispossession and forced migration on Indigenous peoples in North America”, unico nel suo genere e pubblicato recentemente su Science da  un team di ricercatori delle università di Yale, Colorado State e Michigan,  ha tentato di quantificare la massiccia perdita di terre ancestrali da parte delle nazioni indigene negli Stati Uniti da quando i coloni europei hanno iniziato a impossessarsi del continente, scoprendo anche che «L’espropriazione storica della terra è stata associata ai rischi climatici attuali e futuri poiché i popoli indigeni sono stati costretti a spostarsi in territori che sono più esposti a una serie di rischi e pericoli del cambiamento climatico e hanno meno probabilità di essere su preziose risorse di petrolio e gas sotterranee».

Lo studio, realizzato grazie ai dati messi a disposizione Native Land Information System, è stato uno sforzo titanico realizzato con un lavoro a fasi alterne che è proseguito negli ultimi sette anni e il sociologo  Justin Farrell della Yale School of the Environment, che ha guidato il team di ricercatori, ricorda che «Tutti quelli che hanno letto la storia – o una sua versione veritiera – conoscono questa storia, ma questo è il primo studio accademico che ha esaminato l’intera portata del cambiamento e ha cercato di quantificarlo e di georeferenziarlo sistematicamente su vasta scala. La speranza è che altri studiosi e membri delle nazioni indigene esamineranno e miglioreranno i risultati andando progredendo grazie agli open data e a public dashboards, fornendo un quadro più completo e accurato dell’entità dell’espropriazione della terra tra le Nazioni indigene».

Tra le scoperte del team statunitense c’è quella impressionante che, quando i coloni europei hanno iniziato ad invadere il continente, negli Stati Uniti «Le nazioni indigene hanno perso il 98,9% della loro base territoriale storica. Più del 40% delle tribù del periodo storico ora non possiede terre riconosciute a livello federale».

Al di là di questa cifra clamorosa che dà il senso fisico del un genocidio etnico e culturale sul quale si fonda la nascita degli Usa,  i ricercatori hanno collegato le loro scoperte alle domande emergenti sul rischio climatico e sulla disponibilità delle risorse naturali. «In che modo – si sono chiesti – l’esposizione agli effetti del cambiamento climatico differisce tra passato e presente? Come è paragonabile l’idoneità agricola dei terreni storici rispetto ai terreni attuali? E la disponibilità di minerali di petrolio e gas? Al di là della grande quantità di territori andati perduti, cosa si può dire della qualità della terra?»

Uno degli autori dello studio, l’antropologo Paul Burow della School of the Environment della Yale University (YSE), risponde: «Ovviamente, il risultato principale è che, a causa della sistematica espropriazione della terra e della migrazione forzata sotto il colonialismo dei coloni, i popoli nativi sono esposti a una vulnerabilità molto più elevata a causa dei cambiamenti climatici. Per esempio, i territori odierni sopportano, in media, un numero maggiore di giorni di caldo estremo rispetto ai territori storici. Anche i rischi di incendi boschivi sono più gravi per circa la metà di tutte le tribù (i risultati sull’idoneità agricola sono stati contrastanti; il potenziale di valore minerario di petrolio e gas dei territori moderni è inferiore a quello delle terre storiche). E mentre questo ci offre una comprensione molto ampia degli impatti climatici, il lavoro apre davvero delle opportunità per avere una comprensione più sfumata degli effetti a livello locale. Questo è l’inizio di un programma di ricerca completo e a lungo termine che consentirà a chiunque di approfondire come le diverse dinamiche climatiche stanno toccando gli specifici popoli indigeni e i luoghi in cui vivono».

Il caldo estremo è un esempio di questa eredità del colonialismo e dei trasferimenti forzati: «Il risultato medio sull’aumento del rischio di caldo estremo per i gruppi tribali indigeni della nazione è informativo, ma, alla fine, questo rischio è più significativo per alcune comunità rispetto ad altre – dicono i ricercatori – e quindi i dati localizzati sul caldo estremo o sul rischio di incendi boschivi, diciamo, nel West sarebbero di maggior valore».

Una delle autrici dello studio, Kathryn McConnell, anche lei della YSE, evidenzia che «Lo studio si inserisce in una tendenza di ricerca più ampia che collega gli impatti del clima contemporaneo alle storie passate. L’obiettivo è portare questa conversazione storica in contatto con il dialogo sugli impatti climatici. E’ importante la decisione di rendere i dati disponibili al pubblico, poiché molte delle informazioni raccolte sono rimaste storicamente nelle mani di accademici e di interessi commerciali».

A quali conclusioni politiche e storiche porterà questo progetto resta una domanda aperta, ma un coautore dello studio, per Kyle Whyte, della School for Environment and Sustainability dell’università del Michigan, che fa parte della Potawatomi Nation e che è membro del  White House Environmental Justice Advisory Council, fa notare che «La ricerca conferma quello che i leader indigeni chiedono da anni. Gli Stati Uniti non hanno ancora affrontato l’espropriazione della terra e la soppressione della governance territoriale indigena che sono alla radice del motivo per cui i popoli indigeni affrontano una vulnerabilità sproporzionata agli impatti dei cambiamenti climatici».

Farrell conclude: «C’è un’eredità violenta che persiste ancora oggi ed è fondamentale che cerchiamo di capirla su vasta scala. Questo non solo per chiarezza storica sull’espropriazione della terra e la migrazione forzata, ma per politiche concrete che vanno avanti: come possiamo usare queste informazioni in modo che le esperienze vissute giorno per giorno dei popoli indigeni vengano migliorate, in modo che le disuguaglianze esistenti siano corrette e rischi futuri mitigati?»