Il carbon pricing è in 57 Paesi al mondo, 10 carbon tax in Europa. A quando in Italia?

Metà dei proventi da dedicare a green economy e lavoro, l’altra metà a riduzione di tasse e compensazioni sociali. Ronchi: «Non si arriva a drastici abbattimenti delle emissioni di carbonio se si continua a permettere di emetterle gratuitamente in atmosfera»

[8 Ottobre 2019]

La tassa sulle emissioni di carbonio – ovvero la cosiddetta carbon tax – rappresenta uno strumento sempre più diffuso nel mondo per contrastare l’avanzata dei cambiamenti climatici e promuovere un uso più efficiente e innovativo dell’energia: secondo il rapporto State and trends of carbon pricing elaborato dalla Banca mondiale i Paesi che hanno introdotto misure di carbon pricing sono cresciuti dai 19 del 2010 ai 57 di quest’anno – tra sistemi Ets (28) e carbon tax (29) – con una diffusione sempre più marcata anche in Europa. Forme di carbon tax sono infatti ormai presenti in dieci nazioni del Vecchio continente, Finlandia, Danimarca, Slovenia, Polonia, Norvegia, Svezia, Francia, Spagna, Portogallo, e anche la Germania con il suo Klimaschutzprogramm ne ha presentato poche settimane fa l’introduzione.

La Svezia rappresenta uno degli esempi più duraturi di carbon tax in Europa, e da quando la carbon tax è arrivata negli anni ’90 il Pil è cresciuto del 58% mentre le emissioni di gas serra sono calate del 23%, tanche che il Paese ha già approvato una legge che impegna la nazione a divenire carbon neutral entro il 2045, con un lustro d’anticipo sui target europei.

All’appello continua invece ostinatamente a mancare l’Italia, che pure avrebbe un gran bisogno di innovare le proprie politiche climatiche. «Non si arriva a drastici abbattimenti delle emissioni di carbonio se si continua a permettere di emetterle gratuitamente in atmosfera, nonostante i gravi danni che provocano – spiega Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile ed ex ministro dell’Ambiente –  In Italia le emissioni di gas serra sono a 426 Mton di CO2 equiv: praticamente non calano dal 2014. Per allinearci con la traiettoria dell’Accordo di Parigi per il clima dovremmo almeno dimezzare, entro il 2030, le emissioni del 1990 che erano pari a circa 520 Mton, quindi ridurle a 260 Mton. Secondo le stime dell’ISPRA, con le misure attualmente vigenti, arriveremmo a 380 Mton al 2030. Ci mancano misure per tagliare 120 Mton nei prossimi 10 anni,12 Mton all’anno. Se c’è qualcuno in grado di dimostrare che sia possibile produrre uno sforzo del genere senza mettere in campo un impegno straordinario, ma solo con piccole misure di ordinaria amministrazione, si faccia avanti».

In caso contrario, l’introduzione di una carbon tax dovrebbe essere seriamente valutata all’interno di un pacchetto coordinato di misure climatiche, ormai non più rinviabile. «La carbon tax – argomenta Ronchi – va introdotta gradualmente preparando la sua introduzione con una fase di discussione e di confronto pubblico, nei settori non regolati dall’Est che già pagano un prezzo per le proprie emissioni, partendo da un livello basso che va fatto crescere gradualmente. Una parte di questa tassa va impiegata per ridurre altre tasse, a partire da quelle sul lavoro e per compensazioni sociali per le famiglie a basso reddito (anche per evitare contraccolpi come la rivolta francese dei Gilet gialli, ndr). La parte rimanente, intorno alla metà, andrebbe investita in attività che riducano le emissioni, alimentino la green economy e l’occupazione». In totale, si parla di una cifra consistente, stimata nell’ordine degli 8 miliardi di euro l’anno.

«La carbon tax – conclude il presidente della Fondazione – è anche lo strumento più efficace per ridurre i sussidi esistenti dannosi per l’ambiente perché consente di applicare e comunicare un criterio omogeneo per la loro graduale riallocazione: dare e far pagare un prezzo per le emissioni di carbonio». Un appunto di grande attualità dunque per il Green new deal finora solo annunciato dal nuovo Governo nazionale.