L’ambiente alpino e i mari italiani sono gli osservati speciali

Ecco come la crisi climatica sta già cambiando l’Italia, dai mari alle Alpi

Snpa: «I segnali che emergono sembrano già delineare per l’Italia fattori di criticità sia per le risorse naturali che per i settori socio-economici»

[30 Giugno 2021]

Il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) ha pubblicato oggi il primo Rapporto nazionale sugli indicatori di impatto dei cambiamenti climatici, mostrando l’impatto della crisi climatica sul nostro Paese.

«A livello nazionale gli impatti del cambiamento climatico rischiano di essere amplificati in termini sia di pericolosità sia di vulnerabilità – spiega il Snpa – L’area mediterranea e quella alpina rappresentano infatti due hot-spot dei cambiamenti climatici, soggetti alle variazioni più intense e veloci, soprattutto nei regimi termo-pluviometrici».

Anche il trend del surriscaldamento si conferma più accelerato in Italia rispetto alla media globale, dove nel 2020 la temperatura è stata di 1,2° C superiore alla baseline preindustriale. Nel nostro Paese invece l’andamento della temperatura, peraltro rispetto al trentennio climatologico 1961-1990 e non ai livelli preindustriali, è ben più marcato: «A partire dal 1985, le anomalie sono state sempre positive, ad eccezione del 1991 e del 1996 e otto dei dieci anni più caldi della serie storica sono stati registrati dal 2011 in poi, con anomalie comprese tra +1,26 e +1,71°C. La stima aggiornata del rateo di variazione della temperatura media dal 1981 al 2019 è di +0,38 ± 0,05°C/10 anni».

È evidente come un surriscaldamento così marcato stia già portando a modifiche evidente negli ecosistemi e dunque nella vita quotidiana di ognuno. Basandosi su 20 indicatori e 30 casi pilota regionali, il rapporto Snpa ha messo sotto speciale osservazione soprattutto l’ambiente alpino e i mari italiani: i nostri ghiacciai fondono ogni anno di più, e i mari mostrano evidenti aumenti di temperatura, con alterazioni marcate nel Mar Ligure, Adriatico e Ionio settentrionale.

Come argomentano dal Snpa, a causa dell’effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali, si registra una perdita costante di massa (Bilancio di massa dei ghiacciai, indicatore nazionale e caso pilota su Valle d’Aosta e Lombardia), con una media annua pari a oltre un metro di acqua equivalente (cioè lo spessore dello strato di acqua ottenuto dalla fusione del ghiaccio) dal 1995 al 2019: si va da un minimo di 19 metri di acqua equivalente per il ghiacciaio del Basòdino fra Piemonte e Svizzera al massimo di quasi 41 metri per il ghiacciaio di Caresèr, in Trentino Alto Adige.

A tali fenomeni si aggiunge una chiara tendenza al degrado del permafrost. L’analisi di due siti pilota regionali (Valle d’Aosta e Piemonte) evidenzia un riscaldamento medio di +0,15 °C ogni 10 anni con un’elevata probabilità di “degradazione completa” entro il 2040 nel sito piemontese: infatti si ha permafrost solo in presenza di temperature negative al di sotto dello strato attivo del suolo per almeno due anni consecutivi, condizione che rischia di scomparire al 2040.

Anche passando dai monti al mare la situazione mostra segnali inequivocabili: all’aumento della temperatura del mare corrisponde già una significativa variazione della distribuzione delle specie, con un aumento della pesca nei mari italiani di quelle che prediligono temperature elevate (specie di piccole dimensioni come acciuga, sardinella, triglia, mazzancolle e gambero rosa), che si stanno diffondendo sempre più a nord nei mari italiani. Penalizzate, invece, le specie di grandi dimensioni, talvolta di grande interesse commerciale, come il merluzzo, il cantaro, il branzino, lo sgombro e la palamita. Questo fenomeno è fotografato dall’indicatore “temperatura media della catture”, calcolata anno per anno in base alle catture commerciali, cresciuta di oltre un grado negli ultimi 30 anni (un fenomeno più marcato nei mari del sud, nel Tirreno e mar Ligure rispetto all’Adriatico).

Le variazioni del livello del mare costituiscono fonte di preoccupazione per le conseguenze sulle coste: gli incrementi, dell’ordine di pochi millimetri l’anno (valori medi del trend pari a circa 2,2 mm/anno con picchi nel Mare Adriatico di circa 3 mm/anno), sono continui e appaiono ad oggi irreversibili. Particolare attenzione merita il caso di Venezia, dove è presente un fenomeno combinato di eustatismo (innalzamento del livello del mare) e subsidenza (abbassamento del livello del terreno): nel lungo periodo (1872-2019) il tasso di innalzamento del livello medio del mare si attesta sui 2,53 mm/anno, valore più che raddoppiato a 5,34 mm/anno considerando solo l’ultimo periodo (1993-2019).

Evidenze di stress idrico per le colture (mais, erba medica e vite) e le specie vegetali analizzate (ambienti naturali tipici del Friuli) si riscontrano nei casi pilota di Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, dove la carenza continuativa di rifornimento idrico valutata in diversi mm/decennio può comportare sul lungo periodo possibili conseguenze sul ciclo di crescita e riproduttivo, e una consistente perdita produttiva con evidenti ricadute economiche.

Ecco dunque che «i segnali che emergono sembrano già delineare per l’Italia fattori di criticità sia per le risorse naturali che per i settori socio-economici indagati». E se le emissioni globali di gas serra non scenderanno velocemente – con il nostro Paese in primis che però continua a non svolgere il proprio ruolo in questo processo – questi segnali andranno a delineare una situazione sempre più difficile da affrontare: secondo le stime elaborate da Swiss Re per Oxfam, l’Italia rischia di perdere l’11,4% annuo del Pil entro il 2050, la performance peggiore rispetto a tutti i Paesi del G7.