Davos, il cambiamento climatico non fa paura ai capi d’azienda. Le regole sì

[22 Gennaio 2015]

Al World Economic Forum di Davos si discute spesso di ambiente, tanto che nelle edizioni del 2013 e 2014 il riscaldamento climatico era diventato uno dei temi principali, ma evidentemente o era una moda, oppure gli amministratori delegati delle grandi imprese che frequentano l’appuntamento annuale della crème della politica e dell’economia mondiali sono stati poco attenti.

Infatti, secondo il “18th Annual Global CEO Survey –  A marketplace without boundaries? Responding to disruption”, presentato proprio a Davos da PricewaterhouseCoopers International, solo una piccola  minoranza di oltre 1.300 amministratori delegati (CEO) di 77 Paesi diversi ritiene che i cambiamenti climatici dovrebbero essere una priorità assoluta dei governi.

La vergogna per la deregulation finanziaria ed economica che ha portato il mondo a una grande crisi sembra già finita, e l’avidità è tornata di moda: infatti, tra le priorità della politica pubblica per il 2015, quasi due terzi dei CEO hanno affermato che i governi e i parlamenti dovrebbero concentrarsi principalmente sulla riduzione delle tasse, oltre che alla – giusta – formazione di lavoratori qualificati. Una parte minore ha detto che i governi dovrebbero piuttosto concentrarsi sugli investimenti nelle infrastrutture pubbliche, e  solo il 6% pensa che la lotta contro il cambiamento climatico o le azioni per mitigarne gli effetti dovrebbero essere una priorità di chi governa.

Anche se non solo gli ambientalisti, ma ormai anche le grandi compagnie di assicurazione, affermano che – se non verrà affrontato – il cambiamento climatico potrebbe costare alle grandi imprese centinaia di miliardi di dollari, la mancanza di preoccupazione per il cambiamento climatico è evidente e allarmante, visto che guarda assai da vicino anche i veri padroni dell’economia mondiale e i lobbisti che condizionano le politiche dei governi (e che ha volte ne dettano la composizione). Solo 6 mesi fa l’ex sindaco di New York, il miliardario Michael Bloomberg, l’investitore Tom Steyer e l’ex segretario Usa al Tesoro Henry Paulson hanno pubblicato un rapporto del Risky Business Project che esortava i leader aziendali a  ridurre le emissioni di CO2 e a fare della lotta ai cambiamenti climatici una priorità assoluta. I risultati non sono stati quelli sperati.

Il presidente di PricewaterhouseCoopers International Limited, Dennis M. Nally, ha infatti dichiarato ai giornalisti presenti a Davos che «gli amministratori delegati si concentrano più sulle priorità a breve termine che sulle sfide a lungo termine, come il cambiamento climatico. Credo che [la preoccupazione per il cambiamento climatico] ci sia, ma non penso sia così prominente come alcune delle questioni a breve termine».

Il problema è che nessuno invoca più le regole necessarie, chieste dopo il saccheggio che ci ha portato a una crisi dalla quale non riusciamo ancora a uscire; e anche quando il cambiamento climatico ha innescato un dibattito sulle regole, queste si sono confermate la cosa che più terrorizza gli amministratori delegati delle multinazionali, per i quali la regolamentazione riduce gli spazi di manovra dell’iper-capitalismo finanziario e mette l’economia all’interno dei limiti planetari che, come ci conferma anche il recentissimo studio pubblicato su Science, abbiamo abbondantemente superato.

I CEO non riescono a vedere quei confini e scambiano il benessere del pianeta e della popolazione con la (loro) salute finanziaria e i livelli di fiducia nell’economia globale. Ben il 78% degli amministratori delegati che hanno risposto al sondaggio della PricewaterhouseCoopers ha indicato la prospettiva di un’eccessiva regolamentazione come il loro più grande paura per il 2015. Un evidente cambiamento rispetto al 2011, quando “solo” il 59% dichiarò di essere preoccupato per l’eccesso di regolamentazione.

Un atteggiamento che spiega anche l’attacco sferrato da Barack Obama nel suo discorso sullo stato dell’Unione alla minoranza avida di super-ricchi tanto cara ai repubblicani: negli Usa 9 CEO su 10 si dicono preoccupati per un eccesso di regolamentazione, e i leader politici sembrano essere in ascolto, in America come in Europa, dove il vento neoconservatore – solo assopitosi durante la crisi – è ripreso a soffiare forte non appena si e aperto un pertugio ed è filtrata la luce in fondo al tunnel della crisi.

Non a caso le elezioni di mezzo termine americane (ma non solo) hanno visto gruppi di imprese e multinazionali investire in contributi elettorali. Investimento ripagato, visto che il nuovo Congresso Usa a maggioranza repubblicana sta passando i primi giorni della nuova legislatura a difendere la deregolamentazione e a mettere in atto politiche ecoscettiche e pro-combustibili fossili. Ma i deputati e senatori statunitensi (ed anche quelli italiani e di diversi Paesi europei non scherzano) sembrano in particolare impegnati a demolire le timide riforme introdotte per mitigare l’assalto della finanza speculativa all’economia e i regolamenti approvati in seguito alla crisi bancaria del 2008. I repubblicani statunitensi sono andati oltre, e hanno indicato una nuova strada: hanno approvato una legge che, secondo molte associazioni che difendono l’interesse pubblico, è stata progettata per evitare che le agenzie federali promulghino nuove norme, come previsto dalla legge.  Nel frattempo, tanto per portarsi avanti con il lavoro,  i nuovi governatori repubblicani di diversi Stati Usa hanno messo in atto una moratoria sui nuovi regolamenti, compresi quelli dell’Environmental Protection Agency. Anche la Commissione europea ha “tagliato” norme e direttive ambientali in corso di adozione perché contenevano troppa “regolamentazione” o perché prospettavano un modo di fare economia che tenesse conto di confini fisici planetari e della necessità di un utilizzo virtuoso delle risorse.

Non importa se le politiche pubbliche e le regole imposte da Obama (con la continua e pervicace opposizione repubblicana) hanno portato l’economia americana fuori dalla crisi e se i CEO delle multinazionali ne son usciti enormemente più ricchi di prima: a questa nuova “monarchia” planetaria le regole e la politica stanno strette, a meno che non le controllino e non le gestiscano completamente loro e, in questa visione ideologica del mondo, il cambiamento climatico è un ostacolo da rimuovere semplicemente ignorandolo e facendo agire, lautamente finanziati, i politici e i gruppuscoli eco-scettici portatori di una visione iper-liberista della società e del mercato, senza dimenticare le schegge dell’estrema destra, sempre comode per contrastare progressisti e ambientalisti quando alzano troppo la testa.

Alla base di questo estraniarsi dalla realtà fisica di un pianeta con risorse limitate, in crisi ecologica e con  una popolazione in crescita, c’è la paura di perdere i colossali privilegi accumulati grazie a una globalizzazione delle merci e a una frantumazione dei diritti – oltre che dell’ambiente – che è arrivata fino al welfare state europeo. I Paesi nei quali tra i CEO c’è più preoccupazione per un eccesso di regolamentazione comprendono l’Argentina (98%), il Venezuela (96%), gli Usa (90%), la Germania (90%) la Gran Bretagna (87%) e la Cina (85%), mischiando problemi reali e la paura di dover sottostare a regole più chiare di quelle blande che ci sono negli Usa o in Gran Bretagna o addirittura nella Cina del comunismo iper-capitalista, che cerca di salvare sé stessa dagli effetti di una crescita infinita che ha divorato l’ambiente.

Altre preoccupazioni principali citati dagli amministratori delegati sono la disponibilità di competenze chiave (73%),  i deficit fiscali e gli oneri del debito (72%), l’incertezza geopolitica (72%), l’aumento delle tasse (70%), le minacce informatiche e la mancanza di sicurezza dei dati (61%) – che sale rapidamente dal 48% del 2014 – così come l’instabilità sociale (60%), il cambiamento dei modelli di consumo (60%) e la velocità del cambiamento tecnologico (58%). Oltre all’indifferenza per i cambiamenti climatici, da registrare come siano in leggero calo solo le preoccupazioni per i costi energetici scese al 59%.

Gli amministratori delegati che governano l’economia e il mondo sembrerebbero tornati a rintanarsi all’interno del sicuro recinto neo-conservatore, dove l’ambiente non ha spazio,  ma Dennis Nally ha sottolineato a Davos che il tema principale che emerge dalla ricerca è che i CEO si concentrano su come affrontare la volatilità e l’incertezza da loro stessi creata. «Il pianeta si trova ad affrontare sfide importanti: economicamente, politicamente e socialmente. I CEO del mondo rimangono prudenti nelle loro prospettive a breve termine per l’economia globale, così come per le prospettive di crescita per le proprie aziende. Mentre alcuni mercati maturi come gli Stati Uniti sembrano rimbalzare, altri come la zona euro continuano a lottare. E mentre alcune economie emergenti continuano a espandersi rapidamente, altre stanno rallentando. Trovare il giusto equilibrio strategico per sostenere la crescita in questo mercato in evoluzione rimane una sfida».

Un mondo difficile da chiudere nel recinto neo-liberista, soprattutto mentre il global warming scuote la palizzata e semi di coscienza e ribellione cominciano a germinare un po’ in tutto il mondo.