Climate Change Performance Index: Ue bene ma al bivio, Italia 27esima in calo. In testa la Svezia, ultimi gli Usa

Nessun Paese in linea con l’Accordo di Parigi Le emissioni stanno diminuendo in più della metà dei 58 Paesi analizzati

[7 Dicembre 2020]

Il Climate Change Performance Index (CCPI) 2021 pubblicato da Germanwatch in collaborazione con NewClimate Institute (NCI) e Climate Action Network (CAN), presenta un quadro da bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto dei progressi compiuti dall’Unione europea nell’Azione climatica, una performance abbastanza preoccupante dell’Italia e da perdenti degli Usa. Il CCPI analizza e confrontale politiche e i progetti climatici di 57 Paesi (più l’Ue) con le emissioni più elevate e che insieme rappresentano il 90% delle emissioni globali. Il Climate Change Performance Index 2020 analizza le emissioni prima della crisi del Covid-19 e non prende quindi in esame la riduzione delle emissioni di gas serra avvenuta durante la pandemia e i lockdown.

Le 4 categorie dal CCPI sono: emissioni di gas serra (40%), energie rinnovabili (20%), uso di energia (20%) e politica climatica (20%). Quest’ultimo indicatore  si basa su valutazioni di esperti da parte di ONG e think tanks dei diversi Paesi All’interno delle categorie Emissioni, Energia rinnovabile e Uso dell’energia, il CCPI valuta anche in che misura ogni Paese sta intraprendendo azioni adeguate per rispettare davvero l’obiettivo globale dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2° C.

Ancora una volta, il nuovo CCPI non assegna i primi tre posti: si parte  dal quarto della Svezia, che resta in testa alla classifica per il qarto anno consecutivo. Ma, secondo il rapporto, «Anche la Svezia non è un “modello di ruolo climatico”. Come ogni altro paese fino ad ora, non è ancora sulla buona strada per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi». La Svezia si piazza comunque prima in tutti e tre i gruppi nei quali è divisa la  classifica perché sta stabilendo standard in materia di emissioni di gas serra, energia rinnovabile e politica climatica. Ma l’elevatissimo consumo di energia pro capite (49° posto) impedisce al Paese di ottenere una valutazione ancora migliore.

Nella classifica generale seguono Regno Unito (5°) e Danimarca (sesta). A sorpresa, tra i primi 10 ci sono 3 Paesi in via di sviluppo: Marocco (7°), Cile (9°) e India (10°). Il Portogallo, che passa a dal 25esinmo al 17esimo posto, e la Nuova Zelanda, che risale dal 2 37esimo al 28esimo posto e tallona l’Italia, sono i Paesi ad aver fatto il più grosso salto in avanti. Bene abnche il Giappone post-Fukushina che risale 6 posizioni arrivando però a un ancora basso 45esimo posto.

Pessime performances per Slovenia (dal 44° al 51°), Spagna (dal 34° al 41°), il Belgio (dal 35° al 40°) e Grecia (dal 28° al 34°). Ancora una volta, la performance degli Stati Uniti è disastrosa: per la seconda volta consecutiva, e speriamo l’ultima dopo l’infausta presidenza di Donald Trump, gli Usa si classificano addirittura sotto l’Arabia saudita e l’Iran nell’Index e in tutte e 4 le categorie eccetto le energie rinnovabili (“bassa”), gli USA finiscono in fondo alla tabella (“molto bassa”) sono l’unico Paese,  oltre l’Australia e l’Algeria, a ricevere la valutazione di “molto bassa” sia per la politica climatica nazionale che per quella internazionale. Il rapporto è fiducioso: «I piani del presidente eletto Biden offrono grandi opportunità per migliorare in modo significativo questa valutazione, ma solo se le promesse della campagna elettorale verranno effettivamente mantenute. Data la maggioranza ancora poco chiara al Senato, non è chiaro quanto di questo verrà attuato».

Stephan Singer, senior advisor global energy policies di CAN, fa notare che «I più grandi Paesi esportatori e produttori di combustibili fossili che rappresentano meno del 10% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti, la Russia, l’Arabia Saudita e l’Australia sono giustamente in fondo alla tabella . Sono tra i maggiori inquinatori di carbonio e i maggiori consumatori di energia. Nessuno di loro ha in atto una politica climatica federale utile per ridurre l’inquinamento da carbonio. Ciò dimostra il potere influente delle industrie dei combustibili fossili in questi paesi. D’altra parte, noi vedere molte nazioni più piccole come Portogallo, Marocco, Cile e altre in Europa che ottengono risultati molto migliori. Come società civile, per combattere efficacemente la crisi climatica, dobbiamo smantellare il modello di business delle società di combustibili fossili in tutto il mondo».

Nella classifica generale, l’Ue nel suo insieme fa un balzo dal 22esimo posto del 2019 al 16esimo di quest’anno, quasi esclusivamente grazie al miglioramento della politica climatica dell’Ue, come sempre osteggiata dai governi di destra sovranisti dei Paesi carboniferi dell’est Europa. Infatti, l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca si confermano anche in campo energetico e climatico  le pecore nere dell’Europa.

L’Italia si ferma al 27esimo posto, scendendo un gradino rispetto al 26° del 2019, a causa del rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili (31esima in qusta classifica) e a una politica climatica nazionale ritenuta inadeguata agli obiettivi di Parigi, a partire dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), nato già inadeguato e che prevede solo un taglio delle emissioni del 37% entro il 2030, con una riduzione media annua di appena l’1,7%, lontanissima dal 55% dell’Unione europea e con la quale  raggiungere le emissioni net zero nel 2050 sarebbe fantascientifico.

Uno degli autori del CCPI, Jan Burck di Germanwatch, spiega che «L’ultimo Climate Change Performance Index mostra chiaramente che l’Ue si trova a un bivio. L’Ue può diventare un modello nella protezione del clima con misure per una ripresa green dopo la crisi del coronavirus, fissando un obiettivo climatico ambizioso per il 2030 in linea con il limite di 1,5° C e una buona attuazione e ulteriore sviluppo del suo Green Deal . Ma può anche inciampare rovinosamente se persegue il greenwashing anziché la ripresa verde e se implementa obiettivi e strumenti inadeguati nel Green Deal europeo».

In testa alla classifica ci sono solo tre e Paesi membri del G20, mentre in fondo ce ne sono ben 6. Il Regno Unito, quinto, e l’India, decima, e l’Ue ottengono un buon punteggio, ma Usa (61esimi), Arabia Saudita (60esima), Canada (58esimo), Australia (54esima), Corea del Sud (53esima) e Russia (52esima) sono tutti classificati “molto bassi”. C’è anche da notare che  sono tutti Paesi che sfruttano l’energia nucleare o che si stanno preparando a farlo (l’Arabia saudita).

Germanwatch NCI e CAN  evidenziano però che «Mentre un punto di svolta nelle emissioni globali sembra essere a portata di mano, cinque anni dopo l’Accordo di Parigi nessun Paese è su un percorso conforme agli obiettivi dell’accordo di Parigi. Nel complesso, le emissioni di gas serra sono leggermente aumentate, ma in realtà stanno diminuendo in più della metà dei Paesi (32) esaminati. In due terzi dei Paesi (38) più del 10% dell’energia primaria totale richiesta ora proviene da fonti rinnovabili e in 12 di questi Paesi le energie rinnovabili rappresentano anche più del 20%».

Niklas Höhne del NewClimate Institute, conclude: «Ora è tanto più cruciale che la ripresa economica mondiale non solo supporti il ​​rilancio delle economie, ma che stia anche preparando per un’economia globale a zero emissioni di carbonio. Non è ancora chiaro se la maggior parte delle azioni di ripresa esaminate dall’Index  stiano riducendo o aumentando l’effetto delle emissioni di gas serra, ma c’è ancora spazio per modellare i pacchetti di recupero e si stanno discutendo molte buone misure.