Danimarca, Svezia, Cile, Marocco e India in testa. Ue 19esima. Usa e Cina nelle posizioni di retroguardia. Iran, Arabia Saudita e Kazakistan ultimi.

Climate change performance index 2023: quanto (non) sono seri i Paesi rispetto ai loro impegni climatici

Italia al 29° posto. Legambiente: «Invertire subito la rotta con la revisione del Piano Nazionale Energia-Clima in coerenza con l’obiettivo di 1.5° C»

[14 Novembre 2022]

Secondo il Climate Change Performance Index 2023, il rapporto sulla performance climatica dei principali Paesi del mondo, redatto da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute in collaborazione con Legambiente, l’Italia è sostanzialmente in stallo nel contrasto alla crisi climatica: guadagna  appena una posizione rispetto al 2021: è 29esima anziché 30esima, rimanendo ancorata  al centro classifica». Il report evidenzia che «A pesare sul risultato italiano sono principalmente il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza».

Le performance analizzate nel rapporto annuale, presentato oggi alla Cop27 Unfccc in corso a Sharm el Sheikh,  in Egitto, hanno come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030 e vengono misurate attraverso il Climate Change Performance Index (CCPI), basato per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Anche quest’anno restano non assegnate le prime tre posizioni della classifica: «Nessuno tra gli Stati presi in considerazione dal rapporto – 59 nazioni più l’Unione Europea nel suo complesso, rappresentanti ben il 90% delle emissioni climalteranti del globo – ha infatti raggiunto le prestazioni necessarie a fronteggiare la crisi climatica e a contenere l’aumento della temperatura media globale entro la soglia critica di 1,5° C».

In testa alla classifica sono ancora una volta i Paesi scandinavi che continuano a guidare la corsa verso emissioni zero nonostante la crisi energetica. Danimarca e Svezia si posizionano rispettivamente al quarto e quinto posto, soprattutto grazie al loro impegno per l’abbandono delle fonti fossili e nello sviluppo delle rinnovabili. Le seguono Cile, Marocco e India che rafforzano l’azione climatica, nonostante le loro difficili situazioni economiche. In fondo alla classifica ci sono invece Paesi autoritari esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.

Nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, la Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51esimo posto, perdendo ben 13 posizioni rispetto al 2021: «Le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo». Ancora più in basso, 52esin<mi sono gli Stati Uniti d’America, secondo emettitore globale, che però guadagnano 3 posizioni rispetto al 2021: «Un risultato attribuibile alla nuova politica climatica ed energetica dell’Amministrazione Biden che inizia a dare i suoi primi frutti, grazie al considerevole sostegno finanziario all’azione climatica previsto dall’Inflation Reduction Act».

Tra i Paesi del G20, solo India (ottava), Regno Unito (11esimo) e Germania (16esima) si posizionano nella parte alta della classifica, mentre l’Unione Europea nel suo insieme sale di 3 gradini rispetto al 2021, raggiungendo il 19 esimo posto (l’’Italia è sotto di 10 posizioni dalla media Ue) grazie a 9 Paesi posizionati nella parte alta della classifica, frenata però dalle pessime performance di Ungheria e Polonia (governate da partiti sovranisti di destra che sono alleati di Fratelli d’Italia e un punto riferimento politico per Giorgia Meloni) che continuano a essere il fanalino di coda del negazionismo climatico europeo.

Pubblicando la scheda che riguarda il nostro Paese, Legambiente fa notare che «Analizzando più nel dettaglio il posizionamento italiano, si evidenzia come il sostanziale immobilismo nella performance climatica sia dovuto al rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili – che vede l’Italia 33esima nella classifica specifica – e a una politica climatica nazionale ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza climatica. L’attuale Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), infatti, consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030».

Per Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente: «Serve una drastica inversione di rotta Si deve aggiornare al più presto il PNIEC per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l’obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030. Andando, quindi, ben oltre l’obiettivo del 51% previsto dal PNRR e confermando il phase-out del carbone entro il 2025, senza ricorrere a nuove centrali a gas. L’Italia può centrare l’obiettivo climatico del 65%, soprattutto grazie al contributo delle rinnovabili, ma deve velocizzare sia gli interminabili iter di autorizzazione dei grandi impianti industriali alimentati dalle fonti pulite sia quelli delle comunità energetiche, causati soprattutto dai conflitti tra ministero dell’ambiente e della cultura e dalle inadempienze delle regioni».

Secondo Climate Analytics, in Italia è possibile raggiungere almeno il 60% nel mix energetico e fino al 90% nel mix elettrico entro il 2030 e arrivare al 100% di rinnovabili nel settore elettrico già nel 2035, creando così le condizioni per giungere alla neutralità climatica ben prima del 2050. Una scelta già fatta dalla Germania, che si è impegnata a raggiungere la neutralità climatica entro il 2045 con il 100% di produzione elettrica rinnovabile entro il 2035.

Potenzialità confermate anche da Elettricità Futura, la quale di recente ha ribadito che le sue imprese «Assicurano da tempo la loro capacità di realizzare fino a 20 GW l’anno, se le autorizzazioni pubbliche riuscissero a reggere il ritmo (oggi marciano a circa 1 GW l’anno)». Mentre per raggiungere l’obiettivo del 45% previsto da REPowerEU sono sufficienti circa 10 GW di nuovi impianti l’anno, ossia 85 GW di rinnovabili entro il 2030. Per l’Italia, un’accelerazione delle rinnovabili coerente con il REPowerEU comporta benefici davvero importanti per l’economia, la società e l’ambiente». Si tratta di 309 miliardi di euro di investimenti cumulati al 2030 del settore elettrico e della sua filiera industriale, di 345 miliardi di benefici economici cumulati al 2030 in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, di 470 mila nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico nel 2030 (che si aggiungeranno ai circa 120 mila attuali) e di una riduzione del 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico nel 2030 rispetto al 1990.

Mauro Albrizio, responsabile dell’Ufficio europeo di Legambiente, conclude: «Una strada che, se percorsa adeguatamente e nei giusti tempi, consentirebbe di vincere la sfida della duplice crisi energetica e climatica, la quale rischia di mettere l’Italia in ginocchio».