Clima, Boris Johnson: tutti dicono che bisogna fare qualcosa ma poi non lo fanno

Lo scontro sui finanziamenti climatici promessi dai Paesi ricchi e non dati ai Paesi in via di sviluppo potrebbe far fallire la COP26. Il ruolo degli Usa

[21 Settembre 2021]

Intervenendo alla tavola rotonda “Climate Moment”, organizzata dalla Gran Bretagna e dall’Onu a New York, nell’ambito degli eventi della 76esima Assemblea generale, il premier conservatore britannico Boris Johnson  ha detto che «C’è una possibilità “sei su 10” di convincere altri Paesi a sottoscrivere obiettivi finanziari e ambientali prima della conferenza chiave COP26 di novembre sui cambiamenti climatici» e dopo aver detto che solleciterà tutti i governi «a intraprendere un’azione concreta» ha anche ammesso che «Sarà difficile persuadere  gli alleati a mantenere la loro promessa di dare 100 miliardi di dollari l’anno alle nazioni in via di sviluppo per ridurre le emissioni di carbonio».

Il Regno Unito che ospiterà la COP26  (co-organizzata con l’Italia) a Glasgow ha dovuto però difendere la sua nuova segretario al commercio internazionale, Anne-Marie Trevelyan, che sui social media aveva negato più volte la scienza del cambiamento climatico e, incalzato, ha riconosciuto che anche lui – per motivi elettorali e per lisciare la pancia dell’elettorato più reazionario e anti-europeista – non sempre aveva sostenuto l’azione climatica. Ma ora, dopo essere diventato uno dei paladini della lotta al riscaldamento globale, dice che «I fatti cambiano e le persone cambiano idea».

Anche Johnson, come il segretario generale dell’Onu António Guterres e poi Mario Draghi, ha detto che «I Paesi sviluppati hanno collettivamente fallito rispetto al loro obiettivo annuale di 100 miliardi di dollari, con i dati dell’OCSE della scorsa settimana che dimostrano che nel 2019 sono stati mobilitati solo 79,6 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima».

Johnson è sembrato voler mettere le mani avanti rispetto a un possibile fallimento della COP26 – paventato anche da Guterres – perché «Tutti annuiscono e siamo tutti d’accordo che bisogna fare qualcosa. Eppure confesso di essere sempre più frustrato dal fatto che il “qualcosa” in cui molti di voi si sono impegnati non sia neanche lontanamente abbastanza. Sono le maggiori economie del mondo a causare il problema, mentre le più piccole subiscono le peggiori conseguenze. E mentre si stanno facendo progressi in tutto il mondo, il divario tra ciò che è stato promesso, ciò che viene effettivamente fatto e ciò che deve accadere… rimane vasto. Troppe grandi economie – alcune rappresentate qui oggi, altre assenti – sono troppo indietro».

E il premier britannico ha avvertito gli altri leader che «Ci sarebbero conseguenze se l’obiettivo del finanziamento non fosse raggiunto: se diciamo che la vita dei loro figli non vale la seccatura di ridurre il consumo interno di carbone, voteranno con noi in forum come questo? Lavoreranno con noi, prenderanno in prestito da noi, staranno con noi se diremo al mondo che non ci importa se la loro terra e la loro gente annega sotto le onde? Fare  semplicemente da spettatori significa essere complici del loro destino: eppure è esattamente quello che sarermo se non agiremo quest’anno». Poi ha però aggiunto di credere che la Conferenza di Glasgow  «Sarà un punto di svolta per il mondo e il momento in cui dobbiamo crescere e prenderci le nostre responsabilità».

E proprio l’alleato di ferro della Gran Bretagna, gli Stati Uniti d’America, rischiano di diventare un enorme ostacolo per il successo della COP26 Unfccc di Glasgow. Il presidente Usa Joe Biden, dopo essere rientrato nell’Accordo di Parigi e nell’Unfccc, è in difficoltà proprio sugli aiuti climatici ai Paesi in via di sviluppo  e non è ancora certo che il Congresso Usa approverà i fondi necessari.

Secondo il recente rapporto “A fair share of climate finance?  Apportioning responsibility for the $100 billion climate finance goal” del think tank britannico Overseas Development Institute, gli Usa avrebbero pagato solo il 4% dcella lorop “quota equa” che in realtà sarebbe di  40 miliardi di dollari, mentre Biden all’Assemblea Onu dovrebbe impegnarsi a mettere altro denaro sulla bilancia  all’Assemblea generale dell’Onu, anche perché altrimenti è difficile continuare la polemica montante sullo scarso impegno climatico della Cina.

Se i soldi promessi più volte da Usa, Unione europea, G7 e G20 non arrivano, le principali nazioni in via di sviluppo e i blocchi degli Stati più poveri potrebbero opporsi ad ulteriori tagli ad emissioni climalteranti delle quali sono solo in parte o minimamente responsabili.

Se la Cina sta utilizzando i negoziati climatici anche come arma per allentare la pressione dell’occidente sulle sue iniziative geopolitiche, l’India ha opposto un netto no agli Usa che le chiedevano un maggiore impegno climatico e non intende ridurre le emissioni in una fase molto più precoce del suo sviluppo rispetto alle nazioni occidentali.

Il presidente britannico della COP26 Unfccc, Alok Sharma, ha rivelato che il presidente cinese Xi Jinping non ha ancora confermato la sua presenza alla Conferenza di Glasgow  ma Johnson ha affermato che «Sharma ha già avuto alcune ottime conversazioni con i suoi omologhi cinesi sulle cose che vogliono fare. Penso che la Cina sia estremamente importante per questo e penso che la Cina mostri segni reali di voler fare progressi».

Intervistato da Sky News, John Kerry, l’inviato per il clima del presidente Usa, si è detto ottimista: «Penso che ce la faremo con la COP e gli Stati Uniti faranno la loro parte».

Alla domanda se spera che Biden annuncerà maggiori finanziamenti climatici, Kerry ha risposto: «Non spero… vi sto dicendo di rimanere sintonizzati sul discorso del presidente e vedremo a che punto siamo».

Forse si riferiva anche alle misure (interne) annunciate da Biden per contrastare le coinseguenze del caldo estremo.  Il presidente Usa ha ricordato che «Nelle ultime settimane, ho viaggiato in tutto il Paese per vedere in prima persona il devastante tributo umano ed economico delle condizioni meteorologiche estreme esacerbate dal cambiamento climatico. Ho camminato per le strade della Louisiana, del New Jersey e di New York, dove tempeste mortali hanno spazzato via le vite delle famiglie che lavorano, cancellando dalle mappe case e aziende. Mi sono seduto con i vigili del fuoco a Boise, nell’Idaho, e ho esaminato i danni dell’incendio di Caldor nel nord della California, solo uno delle dozzine di grandi incendi che finora, quest’anno, insieme hanno bruciato più di 5 milioni di acri di terra americana. Le comunità che oltre 100 milioni di persone – un americano su tre – chiamano casa sono state colpite da eventi meteorologici estremi solo negli ultimi mesi. Questo è un codice rosso lampeggiante per la nostra nazione. E mentre nelle ultime settimane tutti abbiamo visto le immagini strazianti di super-tempeste, incendi e inondazioni, un altro disastro climatico è in agguato appena sotto il radar: il caldo estremo. Come per altri eventi meteorologici, il caldo estremo sta aumentando di frequenza e ferocia a causa dei cambiamenti climatici, minacciando le comunità in tutto il Paese. In effetti, il National Weather Service ha confermato che il caldo estremo è ora il principale killer legato al clima in America. L’aumento delle temperature rappresenta una minaccia imminente per milioni di lavoratori americani esposti agli elementi, per i bambini nelle scuole senza aria condizionata, per gli anziani nelle case di cura senza risorse di raffreddamento e in particolare per le comunità svantaggiate».

Biden ha promesso solennemente che «La mia amministrazione non lascerà che gli americani affrontino questa minaccia da soli. Oggi sto mobilitando uno sforzo di tutto il governo per proteggere i lavoratori, i bambini, gli anziani e le comunità a rischio dal caldo estremo. Il Department of Labor, the Department of Health and Human Services, the Environmental Protection Agency  e altre agenzie lavoreranno insieme per garantire che il popolo americano abbia condizioni di lavoro sicure e sane, fornire assistenza per il raffreddamento a case e quartieri e coordinarsi con lo Stato e gli amministratori locali per rafforzare la loro resilienza e affrontare gli impatti di questa minaccia».

Biden ha concluso anticipando in salsa patriottica quel che probabilmente dirà all’Assemblea generale dell’Onu: «Mentre forniamo questo aiuto, non vediamo l’ora di agire per far fronte alla più ampia crisi del cambiamento climatico. L’anno scorso il clima estremo è costato all’America 99 miliardi di dollari di danni e nel 2021supereremo quel record. Dobbiamo ricostruire tenendo a mente la resilienza; dobbiamo agire, e agire in fretta, per salvare vite, case, posti di lavoro e industrie e costruire l’economia dell’energia pulita del futuro. Esorto il Congresso a consegnare sulla mia scrivania sia l’accordo bipartisan sulle infrastrutture che la mia agenda Build Back Better, in modo che possiamo fare gli investimenti urgenti che il popolo americano desidera e di cui la nostra nazione ha bisogno  per rafforzare la resilienza della nostra nazione, creare milioni di nuovi posti di lavoro e proteggere le nostre famiglie e comunità dalla crescente crisi climatica».

Ma siccome nessuno si salva da solo nel mondo del global warming, nemmeno gli Usa possono illudersi di farlo ignorando le sofferenze degli altri create da un modello di sviluppo dei quali sono stati i maggiori artefici e beneficiari.