Christian Aid: il cambiamento climatico potrebbe causare un danno del 64% al Pil dei Paesi vulnerabili

Ma alla COP26 i Paesi ricchi non vogliono pagare l’adattamento e il danno creato nei Paesi poveri

[9 Novembre 2021]

Ieri alla COP26 Unfccc di Glasgow è stato il  Adaptation and Loss and Damage Day. il presidente di turno. il britannico Alock Sharma  ha detto che  «I riflettori saranno puntati su quelle nazioni e comunità che sono più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Quelli le cui voci vengono troppo spesso lasciate inascoltate. E sappiamo che anche se domani smettessimo di inquinare il nostro mondo, ci sarebbero conseguenze negative per molti milioni di persone. Ed è per questo che questioni come l’adattamento sono così importanti. Ora sono lieto di vedere progressi su questi temi oggi e accolgo con particolare favore gli impegni per il Fondo di adattamento che verranno assunti nelle prossime ore,  compreso da parte del Regno Unito, per sostenere le comunità vulnerabili nella risposta ai cambiamenti climatici.  I Paesi sviluppati e le banche per lo sviluppo riconoscono la necessità di aumentare i livelli di finanziamento per l’adattamento e spero che saremo in grado di cogliere questo rinnovato impegno nell’esito negoziato della COP26. Quelli di voi che hanno seguito questo processo sapranno che la perdita e il danno sono stati storicamente visti come una questione polarizzante.  Ma sono incoraggiato dal fatto che l’atmosfera sia in qualche modo cambiata e che ora, a fronte di impatti crescenti, c’è un riconoscimento pratico che è necessaria un’azione su questo argomento. La conclusione delle discussioni all’interno degli organismi sussidiari sulla rete di Santiago ne è una testimonianza e apre la strada a maggiori risorse per evitare, ridurre al minimo e affrontare perdite e danni. Le comunità vulnerabili al clima sono particolarmente in cima ai miei pensieri e lo saranno durante questi negoziati. Loro, e le generazioni a venire, non ci perdoneranno se non riusciamo ad avere successo a Glasgow».

E il rapporto “Lost and Damaged: A study of the economic impact of climate change on vulnerable countries”, commissionato da Christian Aid  a Marina Andrijevic, economista della Humboldt-Universität zu Berlin, evidenzia proprio «Il devastante impatto economico che il cambiamento climatico infliggerà ai paesi più vulnerabili del mondo» e delinea «Il triste futuro economico che alcuni dei Paesi più poveri dovranno affrontare», sottolineando la necessità di «Un sistema solido per affrontare le perdite e i danni e un’azione molto maggiore per ridurre emissioni».

Il rapporto prevede che entro il 2050 e il 2100 le economie di questi paesi saranno ancora più deboli di quanto non lo siano oggi e mette in evidenza la quantità di danni causati al loro PIL dal cambiamento climatico, rispetto a uno scenario in cui il cambiamento climatico non avrà luogo.

Stime basate sulla metodologia dello studio “Global non-linear effect of temperature on economic production” pubblicato su Nature nel 2015, dimostrano che «In base alle attuali politiche climatiche, con le quali l’aumento della temperatura globale raggiungerà i 2,9° C entro la fine del secolo, i Paesi più vulnerabili del mondo possono aspettarsi di subire un calo medio del PIL del -19,6% entro il 2050 e del -63,9% entro il 2100. Anche se i Paesi mantengono l’aumento della temperatura globale a 1,5° C come stabilito nell’accordo di Parigi, i paesi vulnerabili devono affrontare una riduzione media del PIL del -13,1% entro il 2050 e del -33,1% entro il 2100. Questo evidenzia il fatto che, anche se i Paesi riusciranno a mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5° C,  sarà necessario un robusto meccanismo di perdite e danni».

Il paese che sta affrontando il peggior impatto climatico previsto sul PIL è il Sudan, che a settembre è stato devastato da forti piogge e inondazioni improvvise che hanno colpito oltre 300.000 persone. Lo studio di  Christian Aid  dimostra che «Con le attuali politiche climatiche il Sudan affronterà una riduzione del PIL del -32,4% entro il 2050 e del -83,9% entro il 2100 rispetto a se non ci fosse alcun cambiamento climatico. Anche in uno scenario di 1,5° C, il Sudan può aspettarsi un colpo del PIL del -22,4% entro il 2050 e del -51,4% entro il 2100».

Lo studio stima il danno economico causato dai cambiamenti climatici sul PIL per i Paesi che compongono due gruppi negoziali chiave alla COP Unfccc: i Least Developed Countries (Paesi meno sviluppati – LDC) e l’ Alliance of Small Island States (AOSIS) e per quelli che fanno parte del  Climate Vulnerable Forum (CVF) e ne viene fuori che «Il pericolo è particolarmente acuto in Africa, con 8 dei primi 10 Paesi più colpiti che provengono da quel continente. Tutti e 10 subiscono danni al PIL di oltre il -70% entro il 2100 nell’ambito della nostra attuale traiettoria della politica climatica e un calo del -40% anche se il mondo si mantiene a 1,5° C».

Lo studio “Global warming has increased global economic inequality”, pubblicato nel 2019 su PNAS e che utilizzava la stessa metofologia, aveva dimostrato che «Il PIL pro capite è già inferiore del -13,6% in tutta l’Africa rispetto a quanto sarebbe stato senza il riscaldamento globale tra il 1991 e il 2010».

La metodologia utilizzata nello studio di Christian Aid   non tiene conto delle misure di adattamento e «Quindi un maggiore investimento nell’adattamento potrebbe potenzialmente alleviare parte del danno». Ma l’ONG he riunisce 41 chiese cristiane nel Regno Unito e dell’Irlanda fa notare che «Gli importi irrisori che i governi occidentali stanno impegnando per il sostegno all’adattamento dei più poveri sono una delle questioni in sospeso in discussione alla COP26. I Paesi più colpiti sono anche quelli con capacità di adattamento molto basse, come delineato dall’ND GAIN index   di vulnerabilità e capacità di adattamento, quindi è irragionevole aspettarsi che non saranno in grado di ridurre questi danni in modo molto sostanziale.

La Andrijevic ha  spiegato che «Sulla base delle relazioni storiche tra la crescita del PIL e le variabili climatiche, qui estrapoliamo come un futuro sotto il cambiamento climatico potrebbe influenzare le prestazioni economiche. Otteniamo cifre sbalorditive che implicano che la capacità dei Paesi del Sud del mondo di svilupparsi in modo sostenibile è seriamente compromessa e che le scelte politiche che facciamo in questo momento sono cruciali per prevenire ulteriori danni. E’ importante tenere presente che queste cifre sono solo estrapolazioni e si concentrano sull’impatto dell’aumento delle temperature, non sugli effetti di eventi meteorologici estremi. E’ possibile che, se gli eventi meteorologici estremi continueranno a causare essi stessi danni economici sostanziali nei prossimi decenni, queste cifre siano stime prudenti ».

Nushrat Chowdhury, consigliere per la giustizia climatica di Christian Aid del Bangladesh, ha raccontato che «Venendo dal Bangladesh, ho visto come le perdite e i danni stiano già colpendo la mia gente. Case, terreni, scuole, ospedali, strade vanno perse e vengono danneggiati da inondazioni e cicloni. La gente sta perdendo tutto. Il livello del mare sta salendo e le persone cercano disperatamente di adattarsi alle mutevoli situazioni. Questo rapporto dimostra che anche se manteniamo l’aumento della temperatura a 1,5° C, il Bangladesh subirà un impatto sul PIL di oltre il 38% entro il 2100. Se mai ci fosse una dimostrazione della necessità di un meccanismo concreto di perdite e danni, questa è questa».

Friederike Otto, docente di scienze climatiche all’Imperial College di Londra, aggiunge: «Le ondate di caldo in tutto il mondo stanno diventando più calde e frequenti a causa dei cambiamenti climatici e continueranno a peggiorare finché continueranno le emissioni. Il caldo estremo non è solo mortale, ma può anche rendere impossibile lavorare all’aperto, quindi i Paesi tropicali ed equatoriali subiranno danni economici crescenti se i grandi inquinatori non agiranno per ridurre le emissioni. Inoltre, le ondate di caldo in Africa sono spesso sottostimate e mancano sistemi di allerta precoce e altre misure per aiutare le persone a farvi fronte».

Mohamed Adow, direttore del think tank di Nairobi Power Shift Africa è molto preoccupato: «Questo rapporto mostra la portata del disastro economico che l’Africa sta affrontando a causa del cambiamento climatico. Il fatto che 8 dei 10 paesi più colpiti provengano dal mio continente sottolinea la minaccia che dobbiamo affrontare se non affrontiamo con urgenza le emissioni globali, ma mostra anche l’evidente necessità di un meccanismo concreto di perdite e danni per affrontare questa ricaduta economica. L’Africa ha fatto il minimo per causare il cambiamento climatico, ma questo rapporto dimostra che dovrà affrontare le conseguenze più gravi. Questo è profondamente ingiusto. Il fatto che i Paesi ricchi abbiano costantemente bloccato gli sforzi per istituire un fondo per perdite e danni per affrontare questa ingiustizia è vergognoso. Questo atteggiamento deve cambiare qui a Glasgow. Non solo perché è necessario, ma perché il costo aumenterà solo se i paesi ricchi continueranno a ignorare i bisogni dei più vulnerabili».

Saleemul Huq, direttore dell’International Centre for Climate Change and Development in Bangladesh ha dichiarato: «La COP26 è la prima COP nella nuova era di perdite e danni causati dal cambiamento climatico indotto dall’uomo che peggiorerà ovunque ogni giorno e ogni anno. Gli impatti peggiori a lungo termine possono essere ridotti da rapidi sforzi di mitigazione, mentre nel breve e medio termine sono ora inevitabili».

Ma dalla COP26 non arrivano buone  notizie perché, come spiega a BBC News Alpha Oumar Kaloga, uno dei principali negoziatori del Gruppo Africa, che rappresenta anche la Guinea nel blocco dei paesi LDC, «Perdite e danni sono ancora un tabù per i Paesi sviluppati. Durante i negoziati, abbiamo ripetutamente sostenuto che le perdite e i danni devono essere menzionati in una colonna separata nei documenti relativi alla finanza climatica dei Paesi sviluppati, perché tali perdite e danni si verificano in tutto il mondo».

SE nelle dichiarazioni ufficiali la presidenza britannica della COP26 si mostra fiduciosa e pubblicamente si parla di «trasparenza in tutto questo processo», nelle riunioni a porte chiuse la resistenza dei Paesi ricchi è frustrante. Un rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) di quest’anno ha mostrato che nel 2019, circa il 25% dei finanziamenti per il clima dei Paesi sviluppati è andato all’adattamento,  mentre tutto il resto è andato a finanziare progetti per ridurre le emissioni di carbonio che spesso finiscono in quote per i Paesi ricchi. I Paesi denunciano che ormai il cambiamento climatico sta avendo un impatto così intenso sulle loro comunità che non possono più adattarsi, ma hanno invece bisogno di sostegno finanziario per ricostruire o per trasferire ingtere popolazioni.

Un portavoce della presidenza della COP26 ha assicurato che il Regno Unito «Sta ascoltando le opinioni di tutte le parti e il testo finale sarà concordato per consenso».

Le-Anne Roper,  sustainable development planning officer del Planning Institute of Jamaica e negoziatrice capo degli AOSIS, vuole un nuovo obiettivo finanziario solo per le perdite e danni separato dai 100 miliardi di dollari già promessi – ma dati solo in parte – dai Paesi sviluppati per il 2020 e che ora sono diventati l’obiettivo per il 2023. Per la ricercatrice e negoziatrice jamaicana, «E’ l’unico modo in cui saremo in grado di dare al nostro popolo una migliore possibilità di sopravvivere, data la crescente portata della crisi e la necessità di azioni significative per affrontare perdite e danni».

Harjeet Singh, consigliere senior di Climate Action Network International, è d’accordo: «Il cambiamento climatico sta distruggendo intere comunità. Si tratta di fornire soccorso, riabilitazione e sostegno a coloro che saranno semplicemente sfollati per sempre».

Su questo tema delle di perdite e danni che, come dimostra il rapporto di  Christian Aid,  rischia di avere ricadute drammatiche sulla maggioranza povera del mondo, le delegazioni dei Paesi sviluppati alla COP26 preferiscono tenere un basso profilo che denota sia imbarazzo che negazione. Ma i Paesi in via di sviluppo denunciano che l’adattamento non ha ricevuto abbastanza attenzione alla COP26 e che l’agenda è stata dominata dalla riduzione delle emissioni di CO2, che ha a che fare soprattutto i Paesi sviluppati e le economie emergenti come Cina e India.

Ma i Paesi ricchi ribattono che diversi Paesi poveri non hanno utilizzato al meglio i fondi messi a loro disposizione e gli esperti affermano che questioni come il malgoverno e la corruzione hanno rappresentato un problema importante nell’attuazione dei progetti di adattamento. Il che non toglie che alla fine il prezzo lo pagheranno sempre i più poveri dei poveri che non hanno nessuna colpa dell’inquinamento causato dai ricchi e del malgoverno dei loro leader nazionali, spesso dittatori e uomini forti amici dei grandi inquinatori planetari.