Brutto clima a Madrid: Ong espulse e i Paesi più inquinatori rifiutano di tagliare ulteriormente le loro emissioni

Niente svolta alla COP25 e si allarga il gap tra richieste dei giovani e le azioni dei governi

[12 Dicembre 2019]

Circa 200 tra attivisti climatici, ambientalisti sono stati espulsi dalla Feria de Madrid che ospita la COP21 Unfccc – che dovrebbe terminare domani – dopo una protesta all’interno della conferenza che impediva l’accesso a una delle sale di negoziazione. I manifestanti denunciano di essere stati «spinti, maltrattati e toccati senza consenso» e dopo l’interruzione, tutti gli altri osservatori sono stati quindi esclusi dai colloqui. Gli osservatori svolgono un ruolo importante nei colloqui, in rappresentanza della società civile. Possono partecipare alle negoziazioni e hanno accesso ai negoziatori a condizione che non rivelino il contenuto delle discussioni. Finora l’Onu non ha commentato quando è successo.

A raccontare questo bruttissimo episodio sono Cecilia Erba dell’ong A Sud e Francesco Panié dell’associazione Terra!: «L’immagine che più ci è rimasta impressa per raccontare la giornata di ieri è quella di un poliziotto che, davanti alla stanza in cui si svolgono i negoziati, tenta con le buone di placare la protesta di duecento fra attivisti e rappresentanti delle popolazioni indigene impegnati in cori e slogan contro i governi all’interno. La storia non finisce bene: i manifestanti sono stati privati dei badge e cacciati dalla Feria de Madrid, dove si svolge la COP 25. Non potranno più rientrare, nemmeno nei prossimi giorni, ma il gesto – hanno detto – era giustificato». Daira Tukano, leader dei Tukano che vivono nel nordest del Brasile, spiega: «Non abbiamo avuto altra scelta che violare le regole della diplomazia internazionale e disturbare i negoziati». Anche fuori dal centro congressi, i dimostranti hanno continuato a cantare una canzone che dice: «Chiediamo al Nord del mondo / di ascoltare le nostre voci / No a false soluzioni / e no al mercato delle emissioni!»

L’espulsione degli attivisti è avvenuta poco dopo che le stesse richieste, con toni differenti, erano state avanzate da giovani e organizzazioni nella sessione dedicata a governi e ONG, concordi nell’aumentare il livello degli impegni globali per la riduzione delle emissioni, infatti, e durante la quale è intervenuta Greta Thunberg. appena nominata persona dell’anno da Time. Nel suo discorso di 11 minuiti, la giovane attivista climatica svedese ha ricordato che «Fra tre settimane entreremo in un nuovo decennio, un decennio che definirà il nostro futuro. In questo momento siamo alla disperata ricerca di qualche segno di speranza, e io dico che la speranza c’è. L’ho vista, ma non proviene da governi o imprese, proviene dal popolo».

E sono stati proprio i rappresentanti di quel popolo, giustamente arrabbiati, ad essere stati espulsi dalla COP25 Unfccc perché hanno avuto l’ardire di chiedere che i governi rispettino e aumentino gli impegni presi con l’Accordo di Parigi. Forse la decisione di mettere fine alla rumorosa manifestazione dopo il discorso accorato, ma prudente e “ottimista” di Greta Thunbefrg, segna più che mai la cesura tra le richieste dei giovani e degli scienziati gli atti concreti dei governi.

La Thunberg ha subito chiesto al segretario generale dell’Onu. António Guterres, di «intervenire per assicurare che giovani e cittadini di tutto il mondo possano impegnarsi e far sentire la loro voce in questi negoziati: è assolutamente indispensabile che venga coinvolto». Prima aveva detto che «I Paesi ricchi devono fare la parte che gli spetta e ridurre più rapidamente a zero le loro emissioni per poi aiutare le nazioni povere a fare lo stesso, così la gente che vive in luoghi meno fortunati del mondo potrà elevare i suoi standard di vita».

Poi ha invitato i leader mondiali a «smettere di usare le pubbliche relazioni creative e di cercare sotterfugi per cercare di non attuare misure sostanziali di cambiamento. Il pericolo maggiore non è la mancanza di azione, il vero pericolo arriva quando i politici e gli alti dirigenti agiscono come se stessero davvero facendo progressi mentre non si fa nulla, tranne che resoconti astuti e le pubbliche relazioni creative. Per i Paesi. I vertici sui cambiamenti climatici sembrano essere diventati opportunità per negoziati evasivi e per non aumentare i propri impegni.

Il 25enne Julius Mbatia, un leader climatico africano di Christian Aid ha detto: «E’ spiacevole che i giovani venuti qui per difendere pacificamente la causa di una forte azione sui cambiamenti climatici, vengano bollati e cacciati dal vertice per fare in modo che il processo climatico Onu possa concludersi con un risultato apparentemente debole e che non protegge il loro futuro».

Anche la direttrice esecutiva di Greenpeace International, Jennifer Morgan, uscita dalla Feira di Madrid per solidarietà con i manifestanti e stata privata del badge di ingresso, nonostante non abbia partecipato alla protesta e nonostante avesse appena partecipato al all’iniziativa con Greta Thunberg che aveva il dichiarato obiettivo di includere le voci dei giovani di tutto il mondo nei negoziati Unfccc. La Morgan, che da 25 anni partecipa alle COP Unfccc, ha detto che «C’è un gap enorme tra quel che succede qui e quel che succede Là dentro. Assistendo a queste riunioni internazionali non ho mai visto una distanza tanto grande tra quel che avviene in strada, con le proteste di milioni di persone in tutto il pianeta guIdate dai giovani attivisti climatici, e quel che succede in una COP, con una negoziazione stanca e senza una leadership chiara contro la crisi climatica tra i Paesi»

Gli attivisti di A Sud sottolineano che «Questi momenti di attivismo e di protesta hanno allargato la frattura fra governi e società civile sui temi del clima. Una frattura resa ancor più evidente dalla passerella stucchevole che li ha inframmezzati: ministri di decine di Paesi hanno salito le scalette che portano al palco per magnificare gli sforzi dei loro governi e concludere con appelli alla buona volontà di tutti».

Tra gli intervenuti c’era anche il ministro dell’ambiente Sergio Costa, che ha rivendicato il Decreto clima approvato alla Camera in via definitiva, definendolo «Uno dei primi al mondo» e un fatto concreto che, insieme alla proposta del ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti di introdurre lo studio dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile nelle scuole, testimonierebbe l’impegno del governo italiano sul tema.

Ma Erba e Panié fanno notare che «Tuttavia, fra le pieghe del Decreto clima si fatica a trovare misure che aiuteranno realmente il Paese nella transizione ecologica. Quella più significativa – il taglio ai sussidi ambientalmente dannosi (SAD) – è stata rimossa e rinviata alla legge di bilancio.

La prima versione del provvedimento, invece, prevedeva l’eliminazione totale di questi aiuti (pari a circa 19 miliardi nel 2017) entro il 2040, partendo dal 2020 con tagli di almeno il 10% l’anno. Fra le note positive del testo c’è l’istituzione del portale che dovrebbe facilitare l’accesso dei cittadini ai dati ambientali, 255 milioni di incentivi sulla mobilità sostenibile e finanziamenti per la riforestazione urbana e l’economia circolare. Infine, contributi a fondo perduto (per un massimo di 5 mila euro) agli esercizi commerciali che venderanno prodotti sfusi o alla spina. Tutte misure di piccolo cabotaggio, mentre non si vede neppure l’ombra di un cambio di modello energetico e produttivo».

Ma quel che ha fatto arrabbiare gli attivisti climatici presenti a Madrid è il fatto che il “cambio di paradigma” tanto sbandierato negli interventi sul palco della COP25 non trova riscontro nei documenti negoziali consegnati dai tecnici alla politica all’inizio di questa settimana. A sud spiega che «Brasile, Australia e Arabia Saudita ancora bloccano i tentativi di raggiungere un accordo sulle regole alla base dei mercati del carbonio, la Cina è riuscita a far rimandare al 2020 l’approvazione di un sistema trasparente per il conteggio delle emissioni e gli Stati Uniti rifiutano di essere considerati fra i responsabili della crisi climatica, fatto che li costringerebbe a versare aiuti finanziari ai Paesi più impattati. Inoltre, ancora una volta, come già successo a Katowice durante la COP 24, c’è forte disaccordo sulla terminologia da utilizzare per recepire le ultime evidenze scientifiche e in particolare i due Rapporti Speciali pubblicati quest’anno dall’Ipcc sulle conseguenze dei cambiamenti climatici sui Territori e sull’Oceano e la Criosfera, che nella bozza di Conclusioni proposta vengono semplicemente “noted”, registrati».

Nonostante l’Onu abbia avvertito che, se si vogliono mantenere le temperature globali entro gli 1,5° c di aumento per evitare cambiamenti climatici, ambientali e sociali catastrofici, gli altri Paesi sono ben lontani dagli impegni presi dall’Ue e da 84 Stati che hanno annunciato un innalzamento della loro ambizione climatica entro il 2020 (73 si sono impegnati per diventare carbon neutral entro il 2050). La Cina, attraverso il suo vice-ministro dell’ecologia e Yingmin Zhao, alla COP25 non ha dato nessun segnale di voler migliorare il programma nazionale cinese di riduzione delle emissioni per i prossimi 10 anni. La Russia non ha nemmeno presentato un piano, gli Usa di Donald Trump hanno confermato l’uscita dall’Unfccc ma a Madrid continuano a fare di tutto per sabotare l’Accordo di Parigi.

Il malcontento per come sta andando la COP25 è aumentato nei giorni scorsi con l’aumentare della sensazione che i principali Paesi emittenti stiano facendo di tutto per bloccare i progressi, ignorando deliberatamente l’allarme lanciato dalle Agenzie Onu. E i piccoli Stati insulari in via di sviluppo si sono schierati con i manifestanti: «Francamente, sono stanco di sentire i principali emettitori che scusano l’inazione nel ridurre le proprie emissioni sulla base del fatto che sono” solo una frazione “del totale mondiale – ha dichiarato il primo ministro delle Figi, Frank Bainimarama – La verità è che in una famiglia di quasi 200 nazioni, gli sforzi collettivi sono fondamentali. Tutti dobbiamo assumerci la nostra responsabilità e tutti dobbiamo fare la nostra parte per raggiungere il net-zero. Come amo dire, siamo tutti nella stessa canoa. Ma attualmente quella canoa sta imbarcando acqua da quasi 200 buchi e ci sono troppi di noi che non stanno cercando di ripararli».

Mentre i negoziati climatici avanzano al rallentatore, l’unica nota positiva è, dicono Erba e Panié, «l’aumento della pressione sull’Unione Europea da parte della società civile ma anche del settore economico e finanziario – con toni più accomodanti – per prendere in mano il dibattito e lanciare un forte segnale di leadership». E in questo senso la proposta dell’European Green Deal avanzata dalla nuova Commissione Ue di Ursula von der Leyen è considerato un passo avanti positivo, così come la dichiarazione di emergenza climatica approvata dal Parlamento Europeo due settimane fa. Ma gli attivisti di A Sud fanno le pulci anche al Green Deal Ue: «Ancora una volta, la prudenza e il realismo, o piuttosto la realpolitik, sembrano avere avuto la meglio rispetto alle richieste pressanti della società civile di politiche coraggiose per contrastare i cambiamenti climatici. La punta di diamante del nuovo Piano è infatti il raggiungimento della neutralità delle emissioni di gas serra nel 2050: tante ne manderemo in atmosfera, tante ne dovremo rimuovere attraverso mari, foreste, terreni e tecnologie che, nelle parole di Greta, “non esistono e forse non esisteranno mai”. Se è vero che nel Rapporto Speciale pubblicato dall’IPCC (il Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) a ottobre 2018 – al quale il Piano dovrebbe rispondere -, si chiede che le emissioni globali raggiungano la neutralità nel 2050, è anche vero che l’Europa dovrebbe tener conto delle proprie responsabilità storiche nel determinare la crisi climatica. Inoltre, date le maggiori capacità economiche e tecnologiche, l’obiettivo a cui dovrebbe mirare è notevolmente più ambizioso. Climate Action Network Europe, in un comunicato dello scorso settembre, chiedeva che la neutralità delle emissioni fosse raggiunta già nel 2040, e che già nel 2030 questo fossero ridotte del 65% rispetto al 1990. Il tutto basato su solide prove scientifiche».

Secondo Marie Toussaint, europarlamentare francese dei verdi e fondatrice di Notre Affaire à Tous,  che ha promosso la campagna L’affaire du siècle e il ricorso per vie legali contro le politiche climatiche francesi considerate non abbastanza ambiziose, «Questo Piano sarebbe stato fantastico dieci anni fa, ma adesso non è abbastanza. C’è bisogno di misure più stringenti e di controllo sull’operato degli Stati Membri affinché rispettino i propri impegni, e di un patto che sia allo stesso tempo ambientale e sociale».

Ma è indubbio che con il Green Deal l’Unione europea ha riconquistato la ledership climatica globale proprio mentre a Madrid i negoziati languono e chi alza la voce per difendere i propri diritti viene allontanato dai luoghi di decisione, dove, come ricorda la stessa A Sud, «L’OPEC continua a fare leva sulla povertà energetica per promuovere il petrolio “come parte della soluzione al cambiamento climatico”, mentre le voci delle organizzazioni osservatrici e portatrici delle istanze ambientaliste, femministe, dei popoli indigeni, degli agricoltori e dei lavoratori cadono nel vuoto di una sala deserta, anche l’Unione Europea rispedisce al mittente la richiesta di giustizia climatica e sociale, voltando le spalle a giovani e meno giovani che continuano a occupare strade e piazze. Ma la protesta non si fermerà qui».